martedì 27 ottobre 2009

Tremonti (vice) Presidente: i retroscena

E' da qualche giorno che non si vede e non si sente Berlusconi. Prima se n'è andato da Putin, poi ha addirittura ritardato il rientro inventandosi un'inesistente bufera di neve. Ora dicono che abbia perfino preso la scarlattina. Sembra ci sia un'epidemia tra le ragazzine russe…

In realtà Berlusconi vuole stare defilato fino a che non verrà trovato un accordo su Tremonti, che – con il patrocinio di Bossi – ha chiesto di diventare Vice-Presidente del Consiglio (con delega dell'Economia). Bossi si sta probabilmente preparando per il dopo-Berlusconi e, non essendoci possibili candidati premier tra gli esponenti della Lega, sta puntando sul "pidiellino" più vicino al suo partito, ovvero Tremonti. Non è un mistero, infatti, che il Ministro dell'Economia e delle Finanze condivida molte delle idee di Bossi e che in passato abbia addirittura ipotizzato un passaggio dal PdL alla Lega.

Tremonti sa che, se venisse nominato vice-premier (e ora ne ha la possibilità, grazie al supporto di Bossi), egli diventerebbe automaticamente il candidato naturale per succedere a Berlusconi, con buona pace degli altri contendenti, Fini in primis. Resosene conto, l'ex presidente di AN ha chiarito che, se Berlusconi decidesse di dare a Tremonti la vicepresidenza del Consiglio, sarebbe “la fine del berlusconismo”. Un eventuale “cedimento” del Presidente del Consiglio avrebbe, secondo Fini, “conseguenze disastrose nel PdL, alleanze comprese”. E nonostante Bossi dica che Tremonti è un grande amico di Berlusconi, sappiamo che tra i due non sempre corre buon sangue, come quando nel 2004 il Ministro lasciò il Governo.

Gli altri ministri del PdL, come Brunetta, commentano diplomaticamente la vicenda, chiedendo a Tremonti di non diventare vice-premier, visto che è tanto bravo a fare il Ministro dell'Economia. Così bravo che l'Italia è il quinto paese al mondo per debito pubblico (dopo Zimbabwe, Giappone, Libano e Jamaica) e l'unica misura che il "miglior Ministro dell'Economia in Europa" è capace di inventarsi è lo scudo fiscale. E so già quello che alcuni di voi stanno pensando… "Colpa della sinistra, che non ha fatto niente e ha lasciato buchi enormi nel budget". La sinistra non avrà fatto niente, ma mi sembra che negli ultimi 9 anni Berlusconi sia stato al Governo per 7 e Tremonti sia stato ministro per 6. Quindi la responsabilità è di tutti e principalmente del PDL.

Berlusconi, d'altra parte, non ha grandi possibilità di manovra: a causa della bocciatura del lodo Alfano ha disperato bisogno di far passare la riforma della giustizia, per la quale gli servono i voti della Lega. Bossi, quindi, lo tiene in pugno, sapendo anche che non ha nulla da perdere: la Lega è più forte che mai e in caso di elezioni anticipate avrebbe solo da guadagnarci.
E anche se il Governo non cadesse potrebbe sempre chiedere qualcosa in cambio, tipo la presidenza di un paio di regioni (cough… Veneto… cough Lombardia…).


http://voglioresistere.blogspot.com/2009/10/tremonti-vice-presidente-i-retroscena.html
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La macchina del fango

- di GIUSEPPE D'AVANZO -

Berlusconi si cucina da solo i suoi guai. Distrugge, di giorno, i muri che i suoi consiglieri fabbricano, di notte, per difenderlo. Quelli si erano appena rimboccati le maniche, con buona volontà, per riproporre - complici, le debolezze di Piero Marrazzo - la separatezza e l'inviolabilità della sfera privata dalla funzione pubblica (ancora!).

Salta fuori che l'Egoarca ha avvertito per tempo il governatore: "C'è in giro un video contro di te". Frammento superbo della nostra vita pubblica. Merita di essere analizzato, e con cura. Viene comodo farlo in quattro quadri.

Nel primo quadro, bisogna riscrivere con parole più adatte quel che sappiamo. Non il signor Silvio Berlusconi, ma il presidente del consiglio - proprietario del maggior gruppo editoriale del Paese - allerta il governatore "di sinistra" che il direttore di una sua gazzetta di pettegolezzi (Chi) ha in mano un video che lo compromette. Glielo ha detto la figlia (Marina, presidente di Mondadori). A questo punto, il capo del governo potrebbe consigliare all'altro uomo di governo di non perdere un minuto e di denunciare il ricatto all'autorità giudiziaria. Nemmeno per sogno. Il presidente del Consiglio indica all'altro attraverso chi passa il ricatto, ne fornisce indirizzo e numero di telefono: che il governatore si aggiusti le cose da solo mettendo mano al portafoglio e "ritirando la merce dal mercato", come pare si dica in questi casi. È la pratica di uomini che governano senza credere né alla legge né allo Stato, né in se stessi né nella loro responsabilità. In una democrazia rispettabile, l'argomento potrebbe essere definitivo. Nell'"Italia gobba", la legalità è opzione, mai dovere, e quindi l'argomento diventa trascurabile. Trascuriamolo (per un attimo solo) e immaginiamo che Marrazzo riesca nell'impresa di ricomprarsi quel video.

È il secondo quadro. Vediamo che cosa accade a questo punto. Piero Marrazzo annuncia la sua seconda candidatura al governatorato. Si vota in marzo. Il candidato "di sinistra" è consapevole che il suo destino politico e personale è nelle mani del leader della coalizione "di destra". In qualsiasi momento, quello può tirare la corda e rompergli il collo. A quel punto, a chi appartiene la vita di Piero Marrazzo? A se stesso, alle sue decisioni politiche, ai suoi comportamenti privati o alla volontà e alle strategie dell'antagonista? È una condizione di vulnerabilità politica che dovrebbe consigliargli la piena trasparenza a meno di non voler diventare un burattino. Al contrario, Marrazzo tace e tira avanti. Scoppia lo scandalo e mente ("È una bufala", "Non c'è alcun video"). Lo scandalo diventa insostenibile e ancora rifiuta la responsabilità della verità: non dice dell'avvertimento di Berlusconi; non dice come si procura il denaro che gli occorre per le sue scapestrate avventure. (Sono buone ragioni per chiedergli di nuovo le dimissioni perché non è sufficiente l'ipocrita impostura dell'autosospensione). Quel che accade al governatore ci mostra in piena luce come funziona "una macchina".

È il terzo quadro. Al centro della scena, i direttori delle testate di proprietà del presidente del Consiglio (o da lui influenzate). In questo caso, Alfonso Signorini, direttore di Chi, già convocato d'urgenza da una vacanza alle Maldive per confondere, con una manipolazione sublunare della realtà, il legame del premier con una minorenne.

Signorini spiega come vanno le cose in casa dell'Egoarca, premier e tycoon. Direttamente con le redazioni o, indirettamente, da strutture esterne o da chi vuole qualche euro facile - i direttori raccolgono fango adatto a un rito di degradazione. Una volta messa al sicuro la poltiglia del disonore (autentica o farlocca, a costoro non importa), il direttore avverte i vertici del gruppo, l'amministratore delegato e il presidente. Che si incaricano di informare l'Egoarca. A questo punto, il premier è padrone del gioco. Pollice giù, e scatta l'aggressione. Pollice su, e il malvisto finisce in uno stato di minorità civile. Accade al giudice Mesiano, spiato dalle telecamere di Canale5.

Berlusconi addirittura annuncia l'imboscata: "Presto, ne vedremo delle belle". Accade al direttore dell'Avvenire, Dino Boffo, colpevole di aver dato voce all'imbarazzo delle parrocchie per la vita disonorevole del premier. Accade al presidente della Camera, Gianfranco Fini, responsabile di un cauto e motivato dissenso politico. Accade a Veronica Lario, moglie ribelle. A ben vedere, accade oggi al ministro dell'Economia che può intuire sul giornale del premier qualche avvertimento. Suona così: "Tremonti in bilico"; "Se Tremonti va, Draghi arriva". C'è da chiedersi: quanti attori del discorso pubblico sono oggi nella condizione di sottomissione che anche Marrazzo era disposto ad accettare?

Quarto e ultimo quadro, allora. Non viviamo nel migliore dei mondi. La personalizzazione della politica ha cambiato ovunque le regole del gioco e il fattore decisivo di ogni competizione è la proiezione negativa o positiva dell'uomo politico - e della sua affidabilità - nella mente degli elettori. È la ragione che fa del "killeraggio politico - scrive Manuel Castells (Comunicazione e potere) - l'arma più potente nella politica mediatica". I metodi sono noti. Si mette in dubbio l'integrità dell'avversario, nella vita pubblica e in quella privata. Ricordate che cosa accade a McCain e Kerry? Si ricordano agli elettori, "in modo esplicito o subliminale", gli stereotipi negativi associati alla personalità del politico, per esempio essere nero e musulmano in America. È la lezione che affronta Barack Obama. Si distorcono le dichiarazioni o le posizioni politiche. Si denunciano corruzione, illegalità o condotta immorale nei partiti che sostengono il politico. Naturalmente, le informazioni distruttive si possono raccogliere, se ci sono; distorcerle, se appaiono dubbie o controverse; fabbricarle, se non ci sono. È uno sporco lavoro, che ha creato negli Stati Uniti, dei professionisti. Uno di loro, Stephen Marks, consulente dei repubblicani, ha raccontato in un libro (Confessions of a Political Hitman, Confessioni di un killer politico) il suo modus operandi. È interessante riassumerlo: "Passo I, il killer politico raccoglie il fango. Passo II, il fango viene messo in mano ai sondaggisti che determinano quale parte del fango arreca maggior danno politico. Passo III, i sondaggisti passano i risultati a quelli che si occupano di pubblicità, che passano i due o tre elementi più dannosi su Tv, radio e giornali con l'intento di fare a pezzi l'avversario politico. Il terzo passo è il più notevole. Mi lascia a bocca aperta l'incredibile talento degli addetti ai media... quando tutto è finito, l'avversario ha subito un serio colpo, da cui non riesce più a riprendersi". Qui, quel che conta è la segmentazione del lavoro e soprattutto "l'incredibile talento degli addetti ai media" perché devono essere i più abili e i più convincenti. I media, negli Stati Uniti, non sono a disposizione della politica e per muoverli occorre "provocare fughe di notizie rimanendo al di fuori della mischia", offrire "merce" che regga a una verifica, a un controllo, che sia significativa e in apparenza corretta anche quando è manipolata.

In Italia, non esiste questo scarto. Non c'è questa fatica da fare perché non c'è alcuna segmentazione della politica mediatica. Uno stesso soggetto ordina la raccolta del fango, quando non lo costruisce. Dispone, per la bisogna, di risorse finanziarie illimitate; di direzioni e redazioni; di collaboratori e strutture private; di funzionari disinvolti nelle burocrazie della sicurezza, magari di "paesi amici e non alleati". Non ha bisogno di convincere nessuno a pubblicare quella robaccia. Se la pubblica da sé, sui suoi media, e ne dispone la priorità su quelli che influenza per posizione politica. È questa la "meccanica" che abbiano sotto gli occhi e bisogna scorgere - della "macchina" - la spaventosa pericolosità e l'assoluta anomalia che va oltre lo stupefacente e noto conflitto d'interessi. Quel che ci viene svelato in queste ore è un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che mette freddo alle ossa, che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole. I più onesti, dovunque siano, dovrebbero riconoscerlo: non parliamo più di trasparenza della responsabilità pubblica, di vulnerabilità, di pubblico/privato. Più semplicemente, discutiamo oggi della libertà di chi dissente o di chi si oppone. O di chi potrebbe sentirsi intimidito a dissentire o a opporsi all'Egoarca.


http://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/cronaca/marrazzo-caso/marrazzo-caso/marrazzo-caso.html
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L’UNIONE EUROPEA DA PROVA DI GRANDE MACHIAVELLISMO

- di Karl Müller -

Appena un anno e mezzo fa, nel maggio 2008, il 55% dei votanti irlandesi diceva no al Trattato di Lisbona. Il 2 ottobre 2009 erano solo il 35%, sebbene il Trattato sia lo stesso.

Una cosa simile è possibile grazie ai metodi dell’UE. Ed è alquanto inquietante, poiché questi metodi han raggiunto alto livello di machiavellismo.

Abbiamo spezzato le gambe agli Irlandesi. Sappiamo bene che sono loro ad aver sofferto maggiormente della politica finanziaria dell’UE, ma se ne sa molto meno del fatto che l’UE se l'è presa duramente con l’identità religiosa di questo popolo. Così duramente, che all’inizio del giugno 2009, molti mesi prima del referendum, il Frankfurter Allgemeine Zeitung, parlando della campagna contro la Chiesa cattolica d’Irlanda, in un articolo intitolato “L’Irlanda dubita di sé stessa”, giungeva a questa conclusione: “Secondo i sondaggi d’opinione irlandesi, questa volta il sì al Trattato di Lisbona sarà maggioritario”.


Naomi Klein ha chiamato la strategia usata verso l’Irlanda “strategia dello choc” e ha scritto un importante libro in proposito [1]. Si tratta di una politica di forza che, servendosi di metodi brutali, mette la popolazione di un paese in uno stato di choc paralizzante e usa questa paralisi per imporre una politica contraria agli interessi del popolo.

E ora, il presidente della Repubblica Ceca Václav Klaus è al centro del mirino. All’inizio del dicembre 2008, si è potuto rendere conto del modo in cui l’UE tratta chi non vuole sottomettersi ai diktat di Berlino, Parigi, Londra e Bruxelles. Un gruppo di deputati del Parlamento europeo è andato a trovarlo e l’ha obbligato a pubblicare, dopo l’incontro, il verbale dei loro incontri [2]. Vi si leggono chiaramente le idee del parlamentare Daniel Cohn-Bendit: “Il suo parere sul Trattato di Lisbona non mi interessa. Dovrà ratificarlo. Inoltre, voglio che mi spieghi il grado di amicizia che la lega al Signor Ganley [capo del partito irlandese Libertas, la cui campagna ha contribuito in maniera notevole al successo del no al referendum del maggio 2008]. Come può incontrare un uomo di cui non si conoscono i finanziatori? Vista la vostra funzione, non deve rincontrarlo”.

Il presidente ceco ha reagito in un modo abbastanza comprensibile: “Da sei anni [da quando è presidente], nessuno mi ha mai parlato con questo tono. Non siamo sulle barricate di Parigi. Credevo che tra di noi non si usassero più questi metodi da 19 anni. Vedo che mi sono sbagliato. Non avevo vissuto niente del genere da 19 anni. Credevo che tutto questo appartenesse al passato, che vivessimo in una democrazia, ma l'UE funziona proprio come una post-democrazia. Avete parlato di valori europei. Questi sono innanzitutto la libertà e la democrazia ed è a questo valori che sono maggiormente attaccati i cittadini dell'UE, ma oggi essi spariscono pian piano”.
Ecco il punto di vista ufficiale: il presidente dell'UE Reinfeldt prima dell'incontro con il primo ministro ceco Fischer a Bruxelles, ha dichiarato: “Nel conflitto riguardante la ratificazione del Trattato di Lisbona, l'Unione europea non vuole esercitare pressioni sulla Repubblica Ceca. Dobbiamo rispettare il processo di ratificazione in questo paese”. (Deutschlandfunk, 7 ottobre).
Anche il Neue Zürcher Zeitung – pur non essendo la Svizzera membro dell'UE – scriveva, il 6 ottobre: “L'ultimo atto della tragedia ceca sul Trattato di Lisbona con Václav Klaus nel ruolo principale, finirà presto. Se il presidente non vuole piegarsi, la cosa più logica sarebbero le sue dimissioni”.

È facile capire cosa l'aspetta. Nel frattempo, ci si chiede già chi dovrebbe occupare il nuovo posto di presidente dell'UE. Molti parlano dell'ex primo ministro britannico Tony Blair. Bene, bisogna sapere che Blair è un bugiardo e un criminale di guerra che ha perso la stima di tutto il pianeta. Se questa proposta è seria – e ci sono varie ragioni per crederlo – questo vuol forse dire che l'UE non prende affatto in considerazione l'opinione mondiale.



Ma questo può anche voler dire che coloro che tirano i fili nell'UE non vogliono che quest'ultima sia capace d'agire e preferiscono un insieme di Stati paralizzati e impotenti, Stati che devono essere tenuti al guinzaglio da un paio di Stati, nell'interesse di grandi potenze nazionali e diretti dall'alta finanza: primi fra tutti, la Francia di Sarkozy e la Germania di Merkel. Bisogna prendere sul serio le nuove maggioranze del Consiglio formatesi in base al Trattato di Lisbona e l'avvertimento lanciato dal ministro lussemburghese degli Affari esteri Jean Asselborn all'inizio dello scorso maggio: “L'UE è cambiata: è sottomessa alla volontà di un direttorio di grandi e di qualche loro vassallo”.

Da molto tempo, la Germania, la Francia (e la Gran Bretagna) conducono una politica di grandi potenze, servendosi dell'UE per raggiungere i propri scopi: in particolar modo, la Germania in Europa dell'Est e del Sud-Est, la Francia nello spazio mediterraneo. Quanto alla Gran Bretagna, essa continua la politica di ex potenza coloniale.

Il Trattato di Lisbona è un trattato leonino per gli altri paesi europei. Non vale la pena aderire all'UE e quelli che sono obbligati a farlo, potrebbero chiedersi se non dovrebbero uscirne.


Fonte: http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid;=15779

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MARINA
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ATTACCO AL LAVORO: IL NUOVO CONTRATTO DEI METALMECCANICI

Con l’accordo separato di ottobre fra i sindacati [ormai definibili a pieno titolo “gialli”] Fim-Cisl e Uilm-Uil e la Federmeccanica per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, l’attacco ai diritti e al potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti si precisa in termini di “profondità” e di gravità.

La questione, è meglio precisare subito, non riguarderà soltanto i lavoratori del settore metalmeccanico, il loro contratto, i loro diritti e le loro prospettive di tutela sul posto di lavoro, ma nel prossimo futuro riguarderà direttamente anche tutti gli altri lavoratori dipendenti, perché è chiaro che il Ccnl dei metalmeccanici funge da banco di prova per far pagare interamente il conto della crisi e il costo della cassa integrazione guadagni, non certo alla Grande Finanza e all’Industria Decotta – che hanno pesanti responsabilità in ordine alla crisi italiana –, ma ai già miseri e fiscalmente tartassati redditi da lavoro dipendente e rappresenterà una tappa importante, decisiva per giungere, alla fine della fiera, ad avere campo libero in materia di licenziamenti e di eventuali, nuove assunzioni.

Anzi, dopo le ondate di disoccupazione che è ragionevole aspettarsi anche nel 2010 – primo anno di vigenza di tale contratto – eventuali assunzioni, o riassunzioni, potranno avvenire a condizioni decisamente favorevoli per il Capitale e punitive per il Lavoro, consentendo una piena “ristrutturazione” di ciò che rimarrà in piedi del sistema produttivo italiano, ri-mercificando pienamente il lavoro senza più difese e procedendo sulla via della modificazione dell’ordine sociale, nel senso di una “brasilianizzazione” a piè sospinto della società italiana con la concentrazione di ricchezza, potere e “prestigio sociale” [i classici, maxweberiani differenziali di classe] interamente nelle mani di pochi.

Assieme ad una parte economica miserrima, che determinerà per i prossimi tre anni peggioramenti significativi nelle condizioni di vita materiali di tutti i lavoratori metalmeccanici, i sindacati “gialli” firmatari hanno permesso l’applicazione di una subdola tecnica dilatoria, grazie alla quale le tranches maggiori di aumento scatteranno a partire dal 2011 ed hanno sottoscritto l’introduzione e l’attivazione del così detto “Ente bilaterale”, o meglio dell’Organismo bilaterale nazionale per il settore metalmeccanico e della installazione d’impianti, finanziato sostanzialmente dai contributi [in parte consistente dei lavoratori] stabiliti dallo stesso Ccnl.

Entrando brevemente e da non “esperti” nel merito della parte economica, si nota che l’aumento medio – per la 5a categoria – è di 110 euro lordi, di cui soltanto 28 euro lordi corrisposti per il 2010 [a far data dal primo gennaio], mentre al primo gennaio 2011 arriveranno 40 euro e il primo gennaio 2012 42 euro.

Se pensiamo che una buona parte del milione e mezzo di lavoratori metalmeccanici è inquadrata in 3a categoria, per moltissimi gli aumenti lordi saranno ancora inferiori, rasentando cifre insignificanti, inferiori persino a quelle della social card tremontiana: 24,15 euro con la prima tranche, 34,50 con la seconda e 36,23 con l’ultima.

Una sorte migliore non avranno coloro che sono inquadrati nella 7a categoria, poiché del lordo totale pari a 144,38 euro per il prossimo triennio, nel 2010 vedranno soltanto 36,75 euro.

Con l’accordo separato per il Ccnl metalmeccanico si costituisce altresì un Fondo di sostegno al reddito ad adesione volontaria, che dovrebbe essere impiegato a favore di quei lavoratori che subiscono riduzioni di reddito per periodi prolungati, al quale oltre alle imprese contribuiranno con un euro mensile di prelievo [versamento a gennaio 2013] i lavoratori che vi avranno aderito.

Sullo sfondo si staglia l’ombra della [mitica] contrattazione di secondo livello, probabile ultima spiaggia per integrare con qualche spicciolo questo possibile, futuro e pessimo Ccnl, pensato per affossare più che sostenere il “potere d’acquisto” dei metalmeccanici.

Ipocritamente, nel testo dell’accordo-truffa si pone l’accento sugli agognati Premi di risultato e sui “sistemi incentivanti”, opportunamente defiscalizzati [ad evidente vantaggio del Capitale], perché in realtà si vuole favorire l’estensione delle voci variabili stipendiali, in progressiva sostituzione delle componenti fisse della retribuzione che sole possono garantire al lavoratore dipendente un reddito non soggetto ad incertezza.

Il nocciolo della questione – vista in prospettiva – è che si vuole “scardinare” la contrattazione di primo livello, fingendo di esaltare il merito, la produttività, l’introduzione generalizzata di sistemi incentivanti con la contrattazione aziendale, ma puntando subdolamente al terzo livello di contrattazione, quello che maggiormente esalta il potere e la forza del Capitale davanti al Lavoro, e che “lascia solo” il lavoratore, ormai atomizzato, nella condizione di in-dividuo con poca o nessuna tutela effettiva, davanti alla parte più forte.

I prossimi tre anni saranno dunque anni molto duri, e questo anche per gli stessi iscritti ai sindacati “gialli” firmatari, la Fim-Cisl e la Uilm-Uil.

Ma la cosa che risulta evidente a tutti coloro che sono in buona fede, è che questo accordo è stato fatto senza la Fiom-Cgil, presente alle trattative soltanto con un osservatore, e, di fatto, è stato siglato dalle “parti sociali” in perfetta concordia, contro il sindacato più rappresentativo dei lavoratori del settore, con il placet del governo Berlusconi e con il silenzio compiacente del cartello elettorale del Pd.

Se si trattasse soltanto di manovre per emarginare la Cgil ed in particolare la Fiom al suo interno, visti come avversari “politici” per la supremazia nel mondo del lavoro dipendente, la cosa sarebbe forse un po’ meno grave di quanto è in realtà, perché il vero scopo è quello di emarginare i lavoratori tutti, di ridurli a merce “muta”, di impedire che possano partecipare alle decisioni che riguardano il loro futuro.

Non a caso i vertici di Fim-Cisl e Uilm-Uil – gli auxiliares di Confindustria e quinta colonna in questo decisivo attacco al lavoro dipendente – faranno di tutto pur di impedire di far votare l’accordo a tutti i metalmeccanici, come dovrebbe essere e prescindendo dal fatto che siano iscritti o meno ad un sindacato.

Mi è stato fatto notare, da chi ha competenza in queste materie ed esperienza in campo sindacale, che il quadro generale dell’offensiva contro il lavoro dipendente [e gli stessi lavoratori] deve essere ricostruito “mettendo insieme”, come si fa con le tessere sparse di un mosaico da ricomporre, la legge finanziaria del governo, il libro verde di Sacconi, i protocolli di intesa fra i governi e le parti sociali [dal Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo e siglato dalle parti sociali nel lontano mese di luglio del 1993 all’Accordo Interconfederale del 15 di aprile 2009] fino ad arrivare al livello contrattuale, livello in cui l’attacco al lavoro si concretizza e si precisa nelle parti economica e normativa.

Ma questo attacco, partito con la così detta “marcia dei quarantamila” quadri e impiegati della FIAT il 14 di ottobre del lontano 1980, guidata da Luigi Arisio e promossa dalla storica azienda, continuato con il blitz contro la scala mobile e l’adeguamento automatico delle retribuzioni all’inflazione nel giorno di San Valentino, il 14 febbraio del 1984 – in un processo ormai storico che ha determinato la “rotta di classe” della classe operaia, salariata e proletaria e che è giunto quasi a compimento – oggi è rivolto con decisione, approfittando della crisi sistemica, contro il livello contrattuale nazionale ed ancora una volta, nell’affondo finale e conclusivo, in primo luogo contro i diritti dei lavoratori metalmeccanici.

La cosa grave è che tale processo di ri-mercificazione del lavoro e di ri-plebeizzazione dei lavoratori ha trovato una sponda utile in un certo sindacalismo, pur minoritario, che assieme ai diritti dei lavoratori, alla così detta democrazia sindacale [per altro già di per sé insufficiente], sta vendendo, come si faceva nel mondo ellenistico-romano della “villa” con gli schiavi, le persone, le loro famiglie e il loro futuro.

Evidentemente questo frammento di sindacato [CISL e UIL], prono davanti ai voleri della Grande Finanza & Industria Decotta e della politica italiana sistemica che funge da supporto a tali interessi, sta cercando con ogni mezzo e a qualsiasi prezzo di sopravvivere alla “onda d’urto” della distruzione creatrice, scatenata dalla “tempesta perfetta” della crisi finanziaria globale, ed anzi di trarne vantaggio – quale centro di potere autoreferenziale e co-gestore degli “Enti bilaterali” – proponendosi come docile strumento al servizio dei soliti “poteri forti”.

Attraverso l’escamotage degli “Enti bilaterali” si decideranno in futuro assunzioni e licenziamenti, si farà formazione, si “flessibilizzerà” ulteriormente il lavoro e si aumenterà la dipendenza dei lavoratori dalle direzioni aziendali, diminuendo le tutele legali e rendendo il lavoro dipendente in modo sempre più pieno ed evidente una merce, mentre invece è parte, inscindibile dal tutto, dell’esperienza esistenziale delle persone e un loro carattere “istitutivo”.

Non è bastato, dunque, lo scudo fiscale concesso quale regalo e premio alla grande evasione, dalla mafia agli speculatori finanziari, da una certa Confindustria ai trafficanti di droga che muovono centinaia di milioni di euro … la distruzione creatice innescata dalla crisi prevede anche l’attacco al lavoro dipendente e, in ultima analisi, all’Etica stessa, se si concepisce l’Etica come Logos, cioè come razionalità ed equilibrata distribuzione della ricchezza e del potere.

Riflettano su questo brutto e insidioso accordo, dunque, tutti i lavoratori, siamo essi impiegati o operai, iscritti alla Fiom o non iscritti, aderenti ai sindacati “che hanno tradito” o non aderenti, perché il momento storico è grave e solenne, e fra tre anni – alla scadenza del contratto dei metalmeccanici in via di rinnovo – niente sarà più come prima.

Fonte: http://anchesetuttinoino.splinder.com/post/21542808/ATTACCO+AL+LAVORO%3A+IL+NUOVO+CO
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Radio Padania, "I trans sono cessi immondi, aborti della natura"

Ecco, se quei leader di sinistra cui capitasse di provare certe attrazioni sessuali reagissero, una volta sgamati, con un orgoglioso "Sì, mi piacciono i trans. E allora?", invece di ripiegare su di un codardo "E’ una mia debolezza privata", espressione umanamente comprensibile, ma inaccettabile, per il detestabile non-detto che essa si porta dietro, se a pronunciarla è chi si è addossato l’onere di trasformare in meglio la società ("debolezza", a differenza di "gusto", indica uno strappo alla norma - ovvero i trans come anormali, freak che vivono nell’ombra e che nell’ombra é giusto che rimangano, e comunque nell’ombra immediatamente ricacciati da uomini dal portafogli forse troppo carico per poter essere uomini davvero), se la sinistra, insomma, ribaltasse la prospettiva e decidesse di farsi finalmente carico delle istanze della comunità transgender, cominciando magari col rivendicare una maggior pulizia di linguaggio ( con troppa disinvoltura si tende ad esempio a parlare di "trans" come se il termine fosse da sé sinonimo di "trans che si prostituiscono"), allora, forse, si starebbe già facendo qualcosa per contrastare quelle pulsioni (esse sì anormali) che periodicamente riemergono, forti di un senso di impunità generale.

Come testimonia questa telefonata giunta a Radio Padania, durante la quale i trans vengono definiti "cessi immondi", "aborti della natura", senza che la conduttrice in studio (e non è la prima volta che succede) ritenga opportuno interrompere il collegamento, o almeno prendere le distanze, obiettare, censurare. Nemmeno quando dall’altra parte del telefono vengono invocate, per i migranti, le "espulsioni di massa, come in Germania":


Clicca per ascoltare un estratto di Radio Padania Radio Padania, "I trans sono cessi immondi ed aborti della natura"

Fonte: http://danielesensi.blogspot.com/2009/10/radio-padania-i-trans-sono-cessi.html
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Marrazzo e Berlusconi, dimissioni subito

- di Giuseppe Giulietti -


Siamo amici di Piero Marrazzo, lo conosciamo da anni e lo abbiamo stimato e lo stimiamo per le campagne civili delle quali è stato protagonista, da giornalista e da amministratore.

Non abbiamo dunque alcun rancore pregresso e non parteciperemo del livore postumo, sport tanto amato dal centro sinistra nelle sue diverse famiglie.

Proprio per queste ragioni avremmo preferito che Marrazzo si dimettesse subito, confessasse l'accaduto, sgomberasse il campo da ogni ambiguità per poter affrontare le altre ambiguità che circondano questa storia.

Per l'ennesima volta il centro sinistra si è fatto prendere in castagna e non ha saputo reagire alla sconcia offensiva scatenata da Gasparri e camerati vari.

Gli inventori dei doli e dei lodi invocano la fustigazione di Marrazzo, dopo aver plaudito ai silenzi del capo, alle bugie nei tribunali e nelle aule parlamentari, alle minacce contro gli istituti di garanzia, alle condanne per corruzione dei più stretti collaboratori del presidente.

Marrazzo si deve dimettere, non abbiamo dubbio, ma vogliamo almeno chiedere le dimissioni di Berlusconi, oppure non si può?

Marrazzo doveva denunciare il tenativo di ricatto, anche su questo non possono esserci dubbi e incertezze, ma chi sono questi 4 carabinieri definiti mele marce dai loro superiori? Chi li ha coperti? Perchè la onorevole Mussolini dichiara che di questi ricatti si sentiva parlare da anni? Siamo proprio sicuri che tra i carabinieri arrestati non ci siano persone premiate per la loro attività professionale proprio dai superiori?

Ci sarà qualche giornalista che oltre a dedicarsi, giustamente e legittimamente, alle biografie delle varie Natalina e Paloma, voglia anche scavare nelle biografie dei quattro carabinieri indicati come una sorta di nuova banda della Magliana?

Per concludere vogliamo rivolgere un cortese cenno di plauso ai tg del polo Raiset che, per una volta a reti unificate, hanno dato grande risalto alle vicende private di un politico.

Di Marrazzo ora sappiamo tutto. Una bella svolta rispetto al passato, quando il direttore del tg1 e i suoi fratelli, con aria sdegnata e schifata, ebbero a spiegare che un giornale serio non può certo abbandonarsi al gossip, al pettegolezzo, alla spazzatura.

Così non è stato per il governatore del Lazio, così è stato invece per l'inchiesta di Bari e per i festini di Palazzo Grazioni e di villa Certosa.

Non abbiamo dubbio alcuno che, dopo la svolta di questi giorni, tutti i tg del polo Raiset non avranno più remore, tratteranno i politici nello stesso modo, non guarderanno in faccia a nessuno, neppure al Presidente del Consiglio che pure è il loro editore di riferimento, o no?


http://temi.repubblica.it/micromega-online/marrazzo-e-berlusconi-dimissioni-subito/
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LA FABBRICA DEL MONDO: LO SFRUTTAMENTO IN CINA

- di Romina Arena -

Il miracolo economico cinese ha reso il Paese una pestifera fabbrica mondiale in cui al progresso sfrenato si mischiano le condizioni disumane del lavoratori che quello sviluppo hanno contribuito a forgiare senza trarne in cambio altro che sfruttamento e povertà. Un breve viaggio in questa miseria vuole tentare di fare luce sulle miserevoli condizioni dei lavoratori in questo pezzo di Asia.

La corsa al capitalismo sfrenato, la crescita economica pachidermica, l’invasione dei mercati con merci di scarsa qualità, nocive per la salute dell’uomo, l’impoverimento dell’ambiente e l’alto tasso di inquinamento sono il prezzo da pagare per diventare grandi. Ma il conto, come sempre nella storia, non lo paga chi ordina dal menù, ma chi serve al tavolo: i lavoratori, le donne, gli uomini ed i bambini che sulla loro pelle vivono una quotidiana violazione dei diritti umani.

Questo è quanto accade nella Cina del miracolo economico.
La coscienza civile si indigna, ma le istituzioni, i grossi circoli economici e le multinazionali tacciono.
La Cina muove miliardi, perché infastidirla più del dovuto?

Le dichiarazioni ufficiali in merito alla violazione dei diritti umani non vanno oltre un registro diplomaticamente sostenibile, fatto di “si esprime la preoccupazione”, “dura condanna”, senza che a questo segua nulla di concreto.

Dopo i fatti di Piazza Tienanmen, nel 1989, gli Stati membri dell’Unione imposero sanzioni pesanti sugli aiuti ed il commercio e la sospensione delle relazioni diplomatiche con Pechino. Furono così sospesi i nuovi progetti di aiuto e bandita la vendita delle armi. Ma la cosa durò poco essendo quasi immediatamente ripreso un graduale aumento dell’assistenza allo sviluppo, mentre le repressioni dei dissidenti aumentarono.

Sembra che le sanzioni siano state prese più che altro per dimostrare all’opinione pubblica che l’Unione europea non stava a guardare e volendo fare credere di assumere delle posizioni in merito.

Non si è infatti mai fatto riferimento al ricorso a misure negative, come un embargo commerciale; oppure a misure economiche restrittive, a sanzioni diplomatiche, né si rinnovò il supporto alla risoluzione della Commissione Onu sui diritti umani che condannava la Cina e che fino al 1989 era invece stata sottoscritta congiuntamente da tutti gli Stati membri. Le opportunità di commercio ed investimenti intraviste dagli Stati membri nell’economia cinese in rapida espansione richiedeva la necessità di chiudere un occhio sui diritti umani, assumendo le ragioni del mercato e dell’interesse affaristico.

In questo caso, chiudere un occhio significa guardare più al business che alla vita dei cinesi dietro la quale esiste una miseria che si schianta contro il luccichio del progresso.

Nel 2001 Kiu Jingmin, vicepresidente del comitato promotore delle Olimpiadi di Pechino 2008, affermò che portare i Giochi in Cina avrebbe significato aiutare lo sviluppo dei diritti umani. Ormai lontani da quell’evento, il risultato è una macchina pantagruelica che ha fagocitato forza lavoro sfruttata e sottopagata, priva dei più elementari dei diritti. Amnesty International chiama “sottoclasse urbana”, la manodopera costituita da milioni di migranti che dalle campagne si spostano nelle città in cerca di lavoro.

Forse sarebbe più corretto chiamarla “sottoclasse urbanizzata”, ma questo non cambia il fatto che siano esclusa da qualsiasi forma di servizio sanitario ed educativo statale, costretti a vivere in condizioni disumane e lavorare sotto il più agghiacciante degli sfruttamenti, senza nessuna copertura sindacale dal momento che l’unico sindacato presente sta dalla parte dei padroni.

Chi si sposta dalla campagna alla città per lavoro è considerato residente temporale: uno status da ottenere attraverso una procedura burocratica estremamente complessa (sistema dello hukou). Se si pensa che gran parte della popolazione rurale cinese sia analfabeta questo complica ancora di più le cose.

Gli strumenti nelle mani dei datori di lavoro sono molteplici e sapientemente mescolati formano un cappio ben stretto intorno al collo dei lavoratori. Chi manifesta l’intenzione di licenziarsi rischia di vedere decurtato il proprio stipendio di circa 3 mensilità; in vista del Capodanno le paghe vengono congelate così da costringere i lavoratori a rientrare subito sul posto di lavoro.

Così mentre in occidente dalle vetrine spuntano invitanti un paio di Timberland che costano 150 euro, in Cina un ragazzino di 14 anni guadagna 45 centesimi per cucirle, lavorando 16 ore al giorno, senza assicurazioni sanitarie, rischiando la salute per i prodotti altamente tossici utilizzati senza alcuna forma di protezione.


Proprio il caso Timberland, in qualche modo, ha permesso di aprire uno spiraglio nel vaso di pandora che è il sistema lavorativo cinese. Gli operai hanno parlato, hanno denunciato la Kingmaker footwear, un’azienda subappaltata che ha come unico committente la Timberland. Ha 4.700 dipendenti di cui l’80% donne e poi anche ragazzini tra i 14 ed i 15 anni. In fabbrica si entra alle 7:30 e si esce alle 21:00; due pause per pranzo e cena e straordinari obbligatori anche dopo l’orario ufficiale di lavoro.

China Labor watch, un’associazione umanitaria, ha raccolto le testimonianze degli abusi e delle torture subite tra le mura di quell’azienda che lavora su licenza per il più prestigioso marchio americano che nel 2004 la rivista Fortune incoronò come migliore azienda dell’anno per le relazioni umane. I lavoratori denunciano orari di lavoro massacranti che aumentano in determinati periodi dell’anno in corrispondenza con l’aumento degli ordini; puntano il dito contro una paga mensile di 757 yuan, pari a circa 75 euro, il 44% della quale viene detratto per pagare vitto ed alloggio (camerate in cui si stipano 16 persone su brande di metallo e mense che servono cibo avariato). Una mensilità viene sempre trattenuta a mo di caparra per vincolare l’operaio al posto di lavoro.

La Timberland si scusa, assicura, attraverso il suo direttore per le relazioni esterne, Robin Giampa, che le responsabilità verranno accertate e che i problemi relativi alle condizioni di lavoro “verranno risolti”.

Peccato che sia stata necessaria l’esasperazione e la disperazione degli operai a fare venire fuori il marcio dall’azienda e non i sopralluoghi che la Timberland, due volte l’anno, conduce sulle fabbriche cinesi che lavorano per suo conto.

La Timberland, però, non è l’unica a rimestare nel torbido. Anche la Puma, con le sue scarpe da 178 euro, non scherza anche se un lavoratore cinese, pensate, per la loro produzione guadagna ben 90 centesimi di dollaro.

Il colosso tedesco ha la propria fabbrica per procura, la Pou Yuen, nel Guandong, cuore pulsante della fabbrica mondiale, con 30000 dipendenti che lavorano dalle 7 del mattino alle 23, senza protezione, soprattutto quelli destinati al reparto confezione, dove si incollano le scarpe.

In occidente, ma facciamo l’esempio dell’Italia, troviamo molto convenienti quei prodotti che si vendono nei negozi cinesi che hanno ormai monopolizzato il mercato.

Non ci sfiora neanche l’idea di cosa possa esistere dietro quello che non additiamo falsamente come un affarone, perché in Cina lo sfruttamento non porta solo il nome del grosso brand.

Esiste lo squallore di piccoli padroni senza scrupoli, che lavorano in proprio, sfruttando manodopera minorile; ragazzini tra i 12 ed i 13 anni affetti da herpes per l’inquinamento da coloranti industriali, con problemi alla vista per le ore passate a fissare gli aghi che cuciono i vestiti.

Già, i bambini. Dovrebbero giocare, andare a scuola, divertirsi e crescere sereni. Tutti i bambini? In teoria si, ma in pratica questo è un privilegio che pare spettare solo ai grassi e fortunati bambini occidentali, mentre gli altri schiattano dentro le fabbriche. Quelle appaltate dalla Disney, per esempio, come la Yiuwah, che serve anche Coca-Cola e Ma Sha, per la grande distribuzione in tutti gli Stati Uniti, il Canada, la Germania, il Belgio, l’Australia, il Giappone.

La Yiuwah viola sistematicamente i diritti dei lavoratori spesso minorenni se non addirittura bambini, costretti a lavorare, per lo più senza un regolare contratto, in ambienti insalubri per 0,71 centesimi di dollaro l’ora ed alle donne sono negate le aspettative per la maternità. Questo è quello che emerge dal rapporto condotto da Clw nell’aprile di quest’anno.

Il progresso si ciba della disperazione. Per una famiglia della Cina rurale, con uno stipendio annuo fissato intorno ai 200 euro, mandare il proprio figlio in fabbrica è il modo più logico per sopravvivere. Per le ragazzine, nel Guandong esiste anche un’altra alternativa: la prostituzione.

Non era esattamente questo che ci si aspettava dallo sviluppo quando Roosevelt parlò di quelle libertà tra cui spiccava anche quella dal bisogno.

Fonte: Terranauta
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C'era una volta l'intercettazione

- di Marco Travaglio -

Pubblico la mia prefazione al libro di Antonio Ingroia "C'era una volta l'intercettazione. La giustizia e le bufale della politica" di Antonio Ingroia (Stampa Alternativa, 2009).

Se cercavate un trattato giuridico sulle intercettazioni telefoniche e ambientali e sulle norme che le regolano e le regoleranno, lardellato di commi e codicilli, avete sbagliato libro: affrettatevi a restituirlo al libraio e chiedete il rimborso. Se invece cercavate uno strumento divulgativo per capirci qualcosa nella giungla dei luoghi comuni, delle frasi fatte, delle bugie che inondano giornali e televisioni sull’ultima (ma solo in ordine di tempo) legge-vergogna del regime berlusconiano (ma, come purtroppo vedremo, non solo berlusconiano), avete fatto la scelta giusta.

Malgrado sia un magistrato, Antonio Ingroia scrive in italiano comprensibile anche ai non addetti ai lavori. E lo dimostra in questo pamphlet agile e spigliato, a tratti ironico, colto ma mai supponente. C’era una volta l’intercettazione è molto più di un bignami divulgativo sul tema. È anche, anzi soprattutto, un prezioso trattatello sull’uso politico della menzogna e sull’ansia disperata d’impunità della nostra classe politica, o meglio della nostra classe dirigente. Che è la più compromessa e infetta del mondo libero, o semilibero.

Un marziano che si ritrovasse catapultato all’improvviso nelle aule e nei corridoi dei nostri palazzi del potere, a furia di sentire gli inquilini parlare con terrore di intercettazioni e progettare come abrogarle, si farebbe l’idea di essere capitato in una succursale della Banda Bassotti. Nei Paesi normali sono i criminali a essere ossessionati dal timore di venire intercettati e a predisporre tutti gli accorgimenti possibili per comunicare lontano da orecchi indiscreti. In Italia sono politici, amministratori, finanzieri, banchieri, imprenditori, top manager, alti ufficiali delle forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza.

Nelle tre parti del libro, Antonio Ingroia, già allievo prediletto di Paolo Borsellino, procuratore aggiunto alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, pubblico ministero in alcuni fra i principali processi di mafia-politica-economia, traccia una storia delle intercettazioni telefoniche in Italia, confuta le più diffuse menzogne in materia e spiega punto per punto il disegno di legge Alfano che sta per essere approvato dal Parlamento dopo varie correzioni e ritocchi.

Ricorda come anche il famoso maxiprocesso a Cosa Nostra, cioè il capolavoro del pool antimafia di Falcone, Borsellino & C., nato dalla collaborazione di Tommaso Buscetta con la giustizia, ebbe origine proprio da un’intercettazione. Rammenta che le prime notizie sugli autori della strage di Capaci emersero da un’altra intercettazione (quella dell’“attentatuni”). Spiega come la secolare impunità della mafia, nella lunga stagione delle assoluzioni per insufficienza di prove, non fu dovuta soltanto alle connivenze e alle collusioni di vasti settori delle forze dell’ordine e della magistratura, oltreché della politica e della “società civile”, ma anche all’impossibilità di penetrare in quell’associazione segreta ascoltandone le “voci di dentro”.

Non a caso le prime condanne di Mafiopoli, dopo anni di assoluzioni-scandalo, arrivarono non appena si riuscì a rompere quel silenzio secolare e ad ascoltare quelle “voci”: voci volontarie, grazie ai pentiti, e voci involontarie, grazie alle intercettazioni telefoniche e ambientali. Intanto, nei processi di Tangentopoli, testimoni e imputati rei confessi aiutavano inquirenti e cittadini a penetrare un’altra forma di criminalità organizzata: il sistema paramafioso della corruzione e della concussione ambientale. Così, nel giro di pochi anni, da Milano a Palermo si cominciò finalmente a illuminare il lato osceno del potere.

E così, appena riavutasi dallo choc, la classe dirigente e i suoi pennivendoli da riporto cominciarono sistematicamente ad aggredire gli strumenti che avevano consentito quella luminosa stagione di legalità e verità: i pentiti e i testimoni (chi non ricorda la vergognosa campagna contro Stefania Ariosto?), preparando la strada alla loro abolizione per legge in tre mosse: la controriforma dell’articolo 513 del Codice di procedura penale, la legge costituzionale del “giusto processo” e infine la norma che ha cancellato quasi tutti gli incentivi che fino a quel momento avevano indotto tanti mafiosi a saltare il fosso e a collaborare con la giustizia.

A quel punto, però, i magistrati riuscirono ancora ad ascoltare le “voci di dentro” grazie alle intercettazioni telefoniche, estese ai reati finanziari da una legge imposta dall’Europa nel 2005. E seguitarono a smascherare scandali di ogni genere, che trascinarono alla sbarra politici, banchieri, finanzieri, imprenditori, la security della Telecom e l’intero vertice della polizia, dei servizi segreti e del Ros dei carabinieri. Troppe verità scomode perché il sistema le potesse sopportare.

Liquidati pentiti e testimoni, restava dunque un solo tallone d’Achille sul corpo invulnerabile del potere, una sola finestra socchiusa in tutto il palazzo: le intercettazioni. Infatti, dopo la guerra mediatico-politica ai pentiti e ai testimoni, ecco l’ultima campagna per delegittimare le intercettazioni e spalancare le porte a una legge che le depotenzi o le smantelli tout court. Missione alla quale si sono molto applicati gli ultimi due cosiddetti ministri della Giustizia, Clemente Mastella e Angelino Alfano.

La legge Mastella, approvata dalla Camera unanime nel 2007 ai tempi del centrosinistra anche con i voti del centrodestra, si occupava soprattutto di abolire la cronaca giudiziaria, con pesanti sanzioni ai giornalisti (e agli editori) che osassero raccontare ancora quel che emergeva non soltanto dalle intercettazioni, ma anche dagli altri atti d’inchiesta (il silenzio stampa sulle inchieste giudiziarie affratella il centrodestra e il centrosinistra: non solo i “berluscones”, ma anche Walter Veltroni, si presentarono nell’ultima campagna elettorale del 2008 predicando il black out assoluto su intercettazioni e atti d’indagine).

La legge Alfano invece taglia la testa al toro e risolve il problema alla radice: non si faranno più intercettazioni, dunque i giornalisti non avranno più telefonate né inchieste da raccontare. Per intercettare qualcuno, il giudice avrà bisogno non più di gravi “indizi di reato” (il tale delitto è stato commesso), ma di gravi o evidenti “indizi di colpevolezza” (a commettere quel delitto è stato il tale). Cioè: se oggi, per scoprire il colpevole, si può intercettare, in futuro si potrà intercettare soltanto se e quando si sarà scoperto il colpevole. Un ribaltamento logico-giuridico che, secondo Cordero, “offre materia d’interessante analisi clinica”. In effetti, all’apparenza, il disegno di legge parrebbe concepito da una selezione dei migliori psicopatici in circolazione. Purtroppo la realtà è ben di peggio: chi l’ha scritto sa bene quel che fa. Anzi, quel che devefare.

Tale è la paura dei nostri politici, di destra e di sinistra, di finire intercettati (l’immunità preserva i loro telefoni, ma non può coprire anche quelli dei criminali con cui molti di loro sono soliti amabilmente conversare), che anche i più fanatici propagandisti della “sicurezza” e della “tolleranza zero” contro la criminalità sono disposti ad abrogare di fatto lo strumento più efficace per smascherare e incastrare i colpevoli dei reati. Franco Cordero, su “la Repubblica”, l’ha chiamata “criminofilia”. Che, giorno dopo giorno, controriforma dopo controriforma, ha sfigurato la democrazia italiana in un regime fondato su un potere senza controllo. Modello Putin.

Pur di conquistare l’impunità – giudiziaria e mediatica – per sé, questa classe dirigente si accinge a smantellare ogni residuo di repressione penale, con tanti saluti alla sicurezza dei cittadini. Infatti, come dimostrano i grandi scandali degli ultimi anni – Bancopoli, Calciopoli, Telecom, Sismi, Cuffaro, Mastella, Del Turco, Vallettopoli, clinica Santa Rita, malasanità un po’ dappertutto, giù giù fino alla Puttanopoli barese col contorno di mazzette ospedaliere – le intercettazioni funzionano fin troppo bene.

Per questo vanno smantellate al più presto, prima che svelino altri imbarazzanti altarini del lato B del potere, della sua “oscenità” come la chiama etimologicamente un altro procuratore antimafia, Roberto Scarpinato, in un altro libro fondamentale per comprendere il rapporto fra istituzioni e criminalità (Il ritorno del principe con Saverio Lodato, ed. Chiarelettere, Milano, 2008):

“I processi, oltre ad assolvere alla loro funzione fondamentale di accertare la responsabilità penale di determinati imputati per specifici reati, hanno svolto anche una straordinaria opera di disvelamento al pubblico dell’‘oscenità’ del potere in Italia. I cittadini grazie a questo rito di disvelamento hanno compreso che il vero potere non è quello esercitato sulla scena pubblica, ma quello praticato fuori scena. In pubblico il potere ‘si mette in scena’ indossando mille maschere a uso e consumo degli spettatori; nel chiuso delle stanze ripone le maschere e rivela il proprio vero volto. Per impedire la vergogna di questo smascheramento (la parola vergogna deriva da vereor gogna, cioè temo la gogna) e per impedire – ricordiamo le parole di De Maistre – ‘alla massa del popolo che la sua volontà tragga le conseguenze della sua conoscenza e proceda alla distruzione di un ordine di cui conosce le origini e gli effetti’, i nostri potenti hanno costruito nel corso degli anni un muro di omertà collettiva intorno al proprio operato… Le intercettazioni consentono ai cittadini senza potere di ascoltare in diretta senza censure la voce segreta del potere”.

Naturalmente i cittadini sanno poco o nulla delle conseguenze nefaste della controriforma delle intercettazioni: chi si informa attraverso i telegiornali e la gran parte dei giornali pensa che la legge Alfano serva a tutelare la privacy della collettività, a garantire il “segreto istruttorio” (che, detto per inciso, è stato abolito nel 1989), a risparmiare milioni di euro che oggi verrebbero sperperati in intercettazioni inutili e voyeuristiche che, fra l’altro, avrebbero l’effetto di “impigrire” gli investigatori disabituandoli a ben più efficaci “strumenti tradizionali di indagine”.

Tutte balle, naturalmente, come si dimostra – dati alla mano – in questo libro. Inoltre, a furia di sentirlo ripetere dall’Alfano, dal Ghedini, dal Gasparri, dal Maroni o dal Vespa di turno, molti si sono fatti l’idea rassicurante che la nuova legge non riguardi le indagini antimafia, e che dunque nella lotta a Cosa Nostra, alla camorra e alla ‘ndrangheta tutto resterà come prima: basta leggere quel che scrive Ingroia, che di indagini di mafia se ne intende, per scoprire che è tutto falso, e perché.

Ma nel regime italiota basta ripetere a pappagallo una bugia per trasformarla automaticamente in un dogma di fede: se ne incaricano appositi intellettuali e giornalisti da riporto, a loro volta terrorizzati all’idea di finire intercettati mentre concordano imposture à la carte con i loro protettori (indimenticabile l’intercettazione di Bruno Vespa che appronta con il portavoce di Gianfranco Fini una puntata di Porta a Porta “confezionata addosso” al leader di An, su misura, come nelle migliori sartorie; per non parlare dei tanti cosiddetti giornalisti sportivi sorpresi a farsi dettare la linea da Luciano Moggi).

Accade così che tutti i Tg e fior di quotidiani rilancino le bugie di Alfano al Parlamento italiano sui milioni di italiani intercettati (falso: sono al massimo 20mila all’anno), sulle spese per intercettazioni che si mangerebbero un terzo del bilancio della Giustizia (falso: le spese reali sono 220 milioni l’anno, a fronte di un bilancio di oltre 7 miliardi) e sui modelli stranieri che sarebbero molto più garantiti e sobri del nostro (falso: un’apposita commissione parlamentare d’inchiesta ha stabilito che il sistema più sobrio e garantista al mondo è proprio quello italiano, ma le conclusioni – avendo deluso le aspettative degli impuniti – sono state nascoste in un cassetto per poter continuare a mentire impunemente).

Lo stesso “caso Genchi”, come ricorda Ingroia, è stato creato a tavolino da un fronte politico trasversale e montato ad arte dalla stampa al seguito: Gioacchino Genchi – consulente tecnico di varie procure in delicatissime indagini su mafia, ‘ndrangheta, omicidi, stragi, sequestri di persona – non ha mai disposto né realizzato una sola intercettazione in vita sua. Ma spacciarlo per un occhiuto e perverso “spione” serviva a dipingere l’Italia come un Paese di “tutti intercettati” e seminare il panico fra i cittadini che, se conoscessero la verità, non solo scenderebbero in piazza contro la legge Alfano, ma chiederebbero più, e non meno, intercettazioni.

Nei giorni della montatura contro Genchi, il servile questore di Roma annunciava in pompa magna di aver smascherato i “mostri”, ovviamente rumeni dello stupro della Caffarella a Roma, “senza intercettazioni”, con i famosi “metodi tradizionali d’indagine”, modestamente paragonati da fonti della stessa questura capitolina a quelli del commissario Maigret. Dopo un mese di carcere, naturalmente, i due rumeni sono stati scarcerati con tante scuse (anzi, senz’alcuna scusa) dopo che, prima il Dna e poi il tracciato dei cellulari rubati alla vittima ricostruito con il metodo Genchi, li avevano completamente scagionati. Ma questa prima, fulgida prova su strada dei “metodi tradizionali” contro la barbarie delle intercettazioni, nessuno l’ha raccontata come meritava.

E così ancora oggi sentiamo tanta brava gente ripetere, nei bar e sui tassì, che “con le intercettazioni si esagera” e “bisogna darci un taglio” per affidarsi ai mitici “marescialli di una volta”. Quando Berta filava e Sherlock Holmes risolveva i delitti esaminando le impronte dei piedi dell’assassino o analizzando le tracce di tabacco sul luogo del delitto. Metodi brillantissimi, se non fosse che oggi i criminali usano il computer e comunicano al telefono con schede estere o via Skype. Dicevano Amurri e Verde: “La criminalità è organizzata, e noi no”. E pensavano di fare una battuta. Non avevano visto all’opera Berlusconi, Mastella, Ghedini e Alfano.


http://www.voglioscendere.ilcannocchiale.it/?r=85820
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Sentenza Mills, il corrotto e il corruttore

- Peter Gomez -


E adesso per Silvio Berlusconi diventa davvero dura. Oggi la seconda sezione della corte d'appello di Milano ha confermato la condanna a 4 anni e sei mesi di reclusione per l'avvocato David Mills, il legale inglese accusato di essere stato corrotto dal premier. Tra quindici giorni verranno depositale le motivazioni della sentenza e a partire dal quel momento le difese avranno 30 giorni di tempo per presentare il loro ricorso in Cassazione. Il rischio concreto è insomma che la suprema corte renda definitiva la condanna di Mills prima che il processo bis contro il Cavaliere sia concluso.

Il nuovo dibattimento che vede imputato il capo del governo per corruzione giudiziaria riprenderà prima di dicembre. La difesa farà di tutto per allungarlo a dismisura, ma è scontato che, in caso di un'eventuale decisione della Cassazione negativa per Mills, i giudici decidano nel giro di poche udienze: finchè la legge non verrà cambiata le sentenze definitive nel nostro ordinamento hanno valore di prova. E se Mills è stato corrotto, il corruttore è Berlusconi.

Il premier, insomma, ha bisogno di tempo. Ma 20 mesi, tanti secondo alcuni calcoli lo separerebbero dall'agognata prescrizione, sono pochi per non pensare di incassare almeno un verdetto di primo grado. Per questo i deputati-avvocati del premier sono già al lavoro. Una soluzione, assicurano, la troveranno. Ma è ormai chiaro che, visto con il senno di poi, il Lodo Alfano, anche per Berlusconi, è stato un madornale errore.


http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&r;=168774
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Si avvera l'incubo: primi morti a causa del vaccino H1N1

Il discusso vaccino distribuito per cercare di ostacolare il diffondersi dell'influenza H1N1 ha presumibilmente prodotto le prime morti (voce modificata a seguito della confusione generata dall'uso del termine "morti accertate" utilizzato poichè allo stato attuale la vaccinazione è l'unica causa del decesso che viene valutata), sono quattro donne svedesi che, in quanto infermiere, rientravano nelle categorie a rischio indicate dai governi e si sono sottoposte a vaccinazione usando il farmaco Pandemrix della GlaxoSmithKline, un preparato contenente mercurio e squalene.

Aumentano anche i casi di effetti tossici dovuti all'inoculamento del vaccino. Sono ormai centinaia i ricoveri avvenuti a causa delle forti reazioni allergiche seguite alla vaccinazione; i primi sintomi che si denunciano sono febbre, dolori muscolari, mal di stomaco, mal di testa, vertigini, stanchezza seguiti da forti dolori in sede di iniezione e da un senso di costrizione toracica che causa dispnea.


Sono più frequenti i fatti che rendono sempre più difficile inquadrare il reale peso del problema legato all'influenza da H1N1:

  • mentre il presidente degli USA Obama dichiara lo stato di emergenza trapela la notizia che non farà vaccinare le sue due figlie


  • a Milano, prima città italiana in cui giunge il vaccino, sei medici su dieci rifiutano il vaccino.



Pochissime le fonti reperibili per approfondire questo annoso dilemma; l'unico quotidiano che ha pubblicato un chiaro articolo di denuncia è lo svedese Expressen o il sito web Flucase


Fonte: http://susannaambivero.blogspot.com/2009/10/si-avvera-lincubo-primi-morti-causa-del.html

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domenica 25 ottobre 2009

Marrazzo, ma va là!

- di Claudio Rossoni e Ottavia Piccolo -

Caro Piero Marrazzo, oggi noi siamo andati a votare alle primarie e per riuscirci abbiamo fatto un po' di salti mortali che non stiamo a raccontarle, perché appartengono alla nostra sfera privata. Ma sul serio: ci siamo fatti il mazzo, noi. Non abbiamo rotto le scatole a nessuno, noi. A nessuno abbiamo rovinato la vita, a nessuno abbiamo bruciato nemmeno due dita di speranza.
Sfera privata! Siamo andati a votare alle primarie, ma, se questo benedetto Pd non si mette a rigare diritto, sarà stata la nostra ultima volta. Anche per colpa sua, caro Marrazzo. Sfera privata! Magari, se le riferiranno queste parole, penserà che siamo troppo drammatici. Il tono forse, non la sostanza. La sostanza dice che siamo stanchi, che questi anni vissuti tra mille vostri giochetti stanno consumando una fetta importante della nostra vita. La nostra vita, che è questa qui e non ce n'è altre.
Facciamo la fatica di vedere un giorno dopo l'altro dominato dall'agenda di un governo inqualificabile, di vivere un giorno dopo l'altro in un Paese irriconoscibile, percorso dal malaffare, da pensieri malati, da astio e cattiveria... Ci sarebbe un lavoro lungo da fare, un lavoro molto serio che richiede abnegazione e sacrificio, un lavoro dedicato alla ricostruzione di una coscienza civile e di una solidarietà sociale irrise fin qui da questa destra. Ci sarebbe un gran lavoro da fare e spetterebbe alla sinistra. Studio, trasparenza, onestà, sobrietà. E anche un po' d'intelligenza, caro presidente della Regione Lazio. Quattro anni fa c'era un candidato presidente che si trovò circondato da spioni. Mascalzoni, volevano bruciarlo con mezzi obliqui! E quel presidente, quattro anni dopo, si caccia in una situazione che pare uno sketch del Bagaglino? Sfera privata. Ma va là! Guardi quanto male ci ha fatto. Ci ha fatto uscire di bocca le parole di Ghedini. E ciò non è bello.
Volevamo far le pulci al presidente del Consiglio, far capire ai tanti italiani vittime della sua macchina da guerra mediatica che, se si vuole stare su certe poltrone, il privato è pubblico e che un uomo ricattabile non può reggere le sorti di tutti. Ma viene da pensare, caro Marrazzo autosospeso, che lei queste nostre convinzioni le condividesse soltanto di facciata. Anzi, che le ritenesse buone per gli altri, ma se ne sentisse esentato. Tant'è vero che ha pensato di poter mentire.
"Non ti preoccupare, Natalì": queste sue parole ci costeranno care e rischieremo tutti, anche quelli seri, di essere sepolti da uno sghignazzo.


http://www.articolo21.info/6048/editoriale/marrazzo-ma-va-la.html
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Io voto Forcone

- di Rita Pani (APOLIDE senza se e senza ma) -

Per carità, noi poi siamo bastardi, e ci piace curvare l’angolino della bocca. Che sia un Trans, o una Escort, sempre di Ford si tratta. Solo che mi pare chiaro un unico concetto: non si devono dimettere, dobbiamo dimetterli a suon di forconi. A me personalmente non mi allontana dalla politica sapere che il “più pulito ha la rogna”, semmai il contrario: diventa per me esortazione a non votare mai più col naso turato, il meno peggio.

Indiscrezioni sconvolgenti, leggo oggi in un articolo. Sconvolgente è per me non leggere della manifestazione di ieri a Roma, nella quale cento o centocinquanta mila persone hanno bloccato la città. Erano insegnanti, operatori della sanità, e persino i nostri eroi: i vigili del fuoco; uniti da sindacati di cui a stento si sente parlare, e dei quali non si ricordano nemmeno a memoria le sigle.

E’ sconvolgente che per dar spazio a notizie quotidiane di puttane, trans, cocaina, pioggerellina di marzo che pare tempesta, quasi non si sappia delle migliaia di calabresi che oggi manifestano ad Amantea, perché vorrebbero sapere di che morte stanno morendo.

Sconvolge apprendere che una vicenda come quella di Diabolik e Eva Mastella, si sia ridotta alla classica cronaca di una persecuzione giudiziaria di un paese sovvertito da giudici comunisti.

E’ impensabile che noi, semplici elettori, non sappiamo più far valere il nostro diritto di cacciare chi sbaglia, dai posti di potere che comunque col nostro voto, cosciente o meno, abbiamo distribuito. Che sia per mafia, per peculato, per mignotte di ogni genere sessuale, ci si presentano baldanzosi: “No: non mi dimetto.” Sono sempre illazioni, persecuzioni, mire golpistiche di comunisti.

Per questo scrivevo, urge dimetterli a calci in culo, ripristinare un minimo di senso etico e morale, secondo il quale, chi ruba va in galera, chi è mafioso ci fa col 41 bis, e ad ognuno il giusto pegno per il reato commesso.

E un pensiero anche per la tanto agognata libertà di stampa: è importante sicuramente sapere che genere di debosciati abbiamo messo a governare la cosa pubblica, ma se tra l’articolo su una puttana, e quello su un trans, ci infilassimo tutto il resto, dalla crisi economica reale ossia quella descritta da chi la crisi la vive, alla tragedia quotidiana vissuta da ex lavoratori, forse riusciremo finalmente ad avere non solo la libertà di stampa, ma anche la libertà di riprenderci il mal tolto: l’orgoglio di poterci dichiarare italiani senza arrossire dalla vergogna.



http://guevina.blog.espresso.repubblica.it/resistenza/2009/10/io-voto-forcone.html
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Il miracolo della neve

- di Piaolo Soldini -

La notizia è clamorosa, anche se in qualche modo ce l’aspettavamo: Silvio Berlusconi comanda anche il tempo meteorologico. Fa splendere il sole, se è di buon umore; fa piovere, se è necessario. E fa anche nevicare, se gli torna utile.

Ieri per esempio gli tornava utile una bella tempesta di neve, che lo bloccasse alla dacia di Wladimir Putin risparmiandogli il fastidio di un tu-per-tu in Consiglio dei ministri con Giulio Tremonti. E la tempesta è arrivata. Violenta, improvvisa, incurante del fatto che tutt’attorno al lago Valdaj nella Valdajskaja Vozvyšennost, dove si trova la dacia, non nevicasse affatto e anzi il clima fosse abbastanza mite per questa stagione nella Russia nord-occidentale, diciamo intorno agli 8 – 10° (sopra lo zero).

La neve, a queste temperature, cade al di sopra dei 1800-2000 metri e il lago Valdaj è a 321 metri. Insomma, neppure con un bel rialzo nei tacchi.

Orgogliosi di avere un capo del governo capace di miracoli che manco gli sciamani siberiani, ci permettiamo, umilmente, un piccolo consiglio: perché non licenzia in tronco i cretini che gli preparano le balle da raccontare senza neppure curarsi di dare un’occhiatina ai bollettini meteo? A meno che la neve anti-Tremonti non sia stata, come si dice, farina del suo sacco.


http://www.unita.it/news/italia/90210/il_miracolo_della_neve
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Quel Silvio da Nobel

- di Giorgio Bocca -

Sulle colpe e i difetti degli italiani Berlusconi naviga a suo agio, li ingigantisce, li giustifica, assecondandone il vizio di scambiare i sogni per realtà, le bugie per verità, la voglia di farla franca per civismo

Dicono di Silvio: alla presidenza della Repubblica non ci pensa, preferisce restare premier, alla presidenza della Repubblica ci metterà il suo fidatissimo Gianni Letta. E invece ci pensa, ci pensa. Nei particolari come sempre, come ciò che i terremotati d'Abruzzo devono trovare nei frigo delle nuove case, dal dentifricio allo spumante per il brindisi riconoscente.

E intanto vuole il Nobel per la pace. L'idea chi ce l'ha avuta? Lui e chi altro? Sono più di cento anni che un italiano non vince il premio Nobel per la pace, ma adesso ci pensa lui, nei particolari.

Cominciamo dal comitato promotore. Un fidatissimo Giammario Battaglia, nominato da Silvio promotore del comitato, sceglie i 20 fidatissimi a cui Silvio spiega, nei particolari cosa devono fare, cominciare dal rileggersi la famosa autobiografia regalata agli italiani, dalla nascita il 29 settembre del 1936 (onomastico festeggiato democraticamente tra operai e sinistrati), alla fondazione di Canale 5, prima rete televisiva nazionale, sino al gennaio del '94, quando "salva l'Italia dal finire nelle mani dei comunisti per contrastare la loro possibile, anzi certa, dittatura e un avvenire di povertà e di servitù". E come capo del governo, Berlusconi "riacquista la fiducia internazionale e il ruolo che spetta all'Italia, come paese fondatore dell'Unione europea".

Capito? Se lo mettano bene in testa e si ripassino gli indiscutibili meriti di cui Silvio parla in ogni suo comizio trasmesso a reti unificate o quasi. Comunque il promotore Giammario Battaglia è lì per ricordarglielo.

Primo capitolo. Silvio Berlusconi e la crisi Russia-Georgia: "Mai avremmo ottenuto un accordo tra georgiani e russi se Berlusconi non avesse fatto valere i suoi antichi legami di amicizia e di fiducia con Vladimir Putin e Nicolas Sarkozy
(e il promotore respinga con sdegno le insinuazioni di qualche antitaliano sul passato di Putin nella polizia sovietica).

Ma veniamo alla pace a cui è dedicato il Nobel. Bene, secondo capitolo: è stato Silvio, "consapevole dei doveri di una grande democrazia, a sostenere, contro il parere diverso delle sinistre, di mandare dei soldati in difesa della pace e in contrasto al terrorismo internazionale".

Terzo capitolo: Silvio Berlusconi e il trattato di amicizia e cooperazione con la Libia. Gheddafi: "I governi precedenti hanno fallito. Quella di Berlusconi è stata una decisione storica nel chiedere scusa per il colonialismo". Solo un antitaliano filocomunista potrebbe ricordare che questo Gheddafi ha accolto come un eroe a Tripoli l'autore dell'attentato terrorista di Lockerbie con centinaia di morti e che anche nella recente riunione delle Nazioni Unite ha insolentito l'Occidente intero.

Quarto capitolo: la nomina di Anders Fogh Rasmussen a segretario generale della Nato. Se non sbagliamo, questo Rasmussen è il politico danese che Berlusconi con raffinato buon gusto indicò come possibile rivale in amore. "Sono stato io - dice Silvio - a togliere il veto della Turchia alla nomina di Rasmussen".

Dicono che l'antiberlusconismo sia un vizio sterile della sinistra, un vano sostituto di una seria opposizione politica. Certo fare di Berlusconi il responsabile di tutte le colpe e i difetti italiani è un'esagerazione, ma dire che su queste colpe e difetti naviga a suo agio, li ingigantisce, li giustifica, li incoraggia assecondandone il vizio a scambiare i desideri per realtà, le bugie per verità, la voglia di farla franca per civismo, questo si può e si deve.


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quel-silvio-da-nobel/2113026/1&ref;=hpsp
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L'aria torbida di fine regno

- di EUGENIO SCALFARI -

L'ARIA che si respira in questi giorni è di fine della seconda Repubblica. Non è detto che sia anche la fine di Berlusconi perché le due cose non sono necessariamente coincidenti. Può darsi che la fine della seconda Repubblica porti con sé e travolga chi su di essa ha regnato; ma può darsi anche che sia proprio lui ad affossarla sostituendola con una Repubblica autoritaria, senza organi di garanzia capaci di preservare lo Stato di diritto e l'equilibrio tra i vari poteri costituzionali.

Il Partito democratico ha presentato in Parlamento il 22 ottobre, con la firma di Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola Latorre, una mozione che fotografa con efficacia questa situazione. Se ne è parlato poco sui giornali, ma è l'atto parlamentare più drammaticamente documentato del bivio cui il paese è arrivato, mentre la crisi economica mondiale è ancora ben lontana dall'aver ceduto il posto ad una ripresa.
I sintomi di questa "fin du règne" sono molteplici. Ne elenco i principali: l'attacco martellante e continuativo del presidente del Consiglio contro la Corte costituzionale e la magistratura; la definitiva presa di distanza del medesimo nei confronti del Capo dello Stato; il disagio crescente di Gianfranco Fini verso la linea del Pdl e in particolare verso le candidature dei governatori in alcune regioni e in particolare il Veneto, il Piemonte, la Campania; l'irrigidimento della Lega su Veneto e Piemonte da lei rivendicate.

E poi il dissenso sempre più profondo tra una parte del Pdl (Scajola, Verdini, Baldassarri, Fitto, Gelmini) e Tremonti e la difficoltà di Berlusconi a ricomporre questo scontro che sta spaccando in due il centrodestra; la rivolta degli artigiani del Nordest contro la politica economica del governo; l'analoga rivolta di molti imprenditori lombardi; i casi giudiziari della famiglia Mastella; i casi giudiziari di un gruppo di imprenditori collegati a Formigoni; il caso Marrazzo e le sue possibili conseguenze politiche ed elettorali; gli attacchi dei giornali berlusconiani contro Tremonti e la sua minaccia di dimettersi. Infine la preoccupazione del presidente della Repubblica che aumenta ogni giorno di più e si manifesta in ripetuti e pressanti richiami a mandare avanti le riforme in un clima di condivisione.

L'elenco è lungo e sicuramente incompleto, ma ampiamente sufficiente ad alimentare la percezione di un processo di "disossamento" del paese, d'una guerra di tutti contro tutti, di un'azione di governo basata su frenetici annunci ai quali non segue alcun fatto. Si procede alla cieca. Siamo addirittura ad una sorta di fuga del premier che si è andato a nascondere nella duma personale di Putin e lì sta ancora mentre scriviamo (trattenuto a quanto si dice da una furiosa tempesta di neve della quale peraltro non c'è traccia nel bollettino meteorologico) dopo aver disertato la visita di Stato del re e della regina di Giordania ed aver rinviato a data da destinare il Consiglio dei ministri che era stato convocato per venerdì mattina. Forse per sfuggire al chiarimento con Tremonti?
Di sicuro si sa soltanto che il nostro premier è con il dittatore russo da tre giorni durante i quali hanno parlato "anche" di affari. Insomma, tira un'aria brutta, anzi mefitica.

* * *
Per non correr dietro alle voci sussurrate o gridate, stiamo ai fatti e soprattutto a quelli economici che maggiormente interessano i cittadini, cominciando con l'annuncio (ancora un annuncio) fatto dal premier prima di partire per San Pietroburgo, di voler dare inizio ad un graduale ribasso dell'imposta Irap.
L'annuncio fu lanciato la prima volta nel 2001 e poi rinnovato nel 2005, ma seguiti concreti non ce ne furono. Questa è dunque la terza volta; ma mentre dieci anni fa nessuno si oppose all'interno del centrodestra, questa volta c'è un "no" secco del ministro dell'Economia per mancanza di copertura.
Oltre al suo, c'è anche un "no" della Cgil e delle Regioni, a fronte di un completo appoggio da parte della Confindustria.

Si discute di un'imposta voluta a suo tempo da Vincenzo Visco, che unificò nell'Irap sette imposte precedenti, destinandone il gettito al finanziamento del Servizio sanitario nazionale. Il gettito attuale dell'imposta rende 37 miliardi l'anno. Grava sulle imprese ed anche sui lavoratori così come vi gravavano le sette imposte precedenti. Il graduale ribasso annunciato da Berlusconi non è stato ancora definito nella sua concretezza, visto che spetterebbe a Tremonti di farlo ma è proprio lui che vi si rifiuta. I consiglieri del premier pensano ad una riduzione dell'imposta tra i tre e i quattro miliardi a vantaggio delle imprese, soprattutto di quelle di piccole dimensioni. I medesimi consiglieri suggeriscono di trovare la copertura utilizzando i fondi accantonati per il Mezzogiorno o quelli derivanti dallo scudo fiscale. Tremonti - l'abbiamo già detto - ha risposto con la minaccia di immediate dimissioni.

* * *
Nel frattempo ha fatto il giro di tutti i giornali un documento anonimo ma proveniente da alcuni "colonnelli" del Pdl, che avanzava una serie di critiche alla linea rigorista del ministro dell'Economia. Non si dovrebbe dar peso ai documenti anonimi senonché proprio ieri è stato presentato un documento con tanto di egregia firma da parte del presidente della commissione Finanze e Tesoro del Senato, Baldassarri. In esso la linea rigorista del ministro viene completamente smontata dal vice ministro, il quale propone tagli di spesa e diminuzione di imposte da riversare a vantaggio dei consumatori, dei lavoratori e delle imprese per un totale della rispettabile cifra di 37 miliardi.

Le dimensioni di questa manovra di fronte alla legge finanziaria del 2010 ancora in discussione in Parlamento, è imponente: 37 miliardi per modificare una Finanziaria che ammonta a un miliardo e mezzo. È evidente che in questo caso non ci saranno compromessi possibili: o viene smentito Baldassarri o se ne va Tremonti.

Ma non è tutto nel campo della politica economica. C'è la questione della Banca del Sud, che sta molto a cuore a Tremonti ed è stata già approvata nell'ultimo Consiglio dei ministri.

Si tratta anche in questo caso di un semplice annuncio sotto forma di un disegno di legge che configura per ora uno scatolone vuoto, del quale non si conoscono neppure i proprietari, cioè gli azionisti. Uno scatolone consimile fu battezzato anche dal medesimo Tremonti nel 2003, ma dopo un paio di mesi la gestazione fu interrotta per procurato aborto: la proposta infatti fu ritirata. Accadrà così anche questa volta?
La proposta (e sembra paradossale ma non lo è) incontra l'opposizione dei ministri meridionali, delle regioni meridionali, e dell'opposizione. Il perché è facile da capire: si tratta d'una banca autorizzata a raccogliere fondi sul mercato usandoli per finanziare imprese nel Sud a tassi particolarmente allettanti per i debitori. Lo Stato si accollerebbe la differenza. Si creerebbe così un circuito creditizio virtuoso per chi riceverà quei prestiti, ma un circuito perverso per le imprese già operanti con tassi tre volte più alti dei clienti della Banca. Clienti è la parola giusta perché si tratterà di una vera e propria clientela facente capo al ministro dell'Economia, fondatore e protettore della Banca in questione.

Va detto che l'agevolazione sui prestiti dovrà preliminarmente ottenere l'ok della Commissione Europea e infine quella della Banca d'Italia, la quale non sembra entusiasta d'una Banca così concepita.
Accenno a qualche altro problema più che mai aperto nella politica economica. Ho parlato prima di una rivolta degli artigiani del Nordest e del disagio tra le molte imprese che operano in Brianza. Si tratta di elettori in gran parte del centrodestra, molti dei quali finora hanno spesso intonato con convinzione il ritornello "meno male che Silvio c'è". Non pare che siano ora così entusiasti. Lamentano soprattutto due cose: la mancanza d'una riduzione fiscale tante volte promessa e mai avvenuta e il tempo maledettamente lungo impiegato dalle pubbliche amministrazioni locali e centrali per pagare i debiti contratti con quelle imprese. Una volta si trattava di 30 giorni, poi di 60; adesso ne passano mediamente 130, cinque mesi, prima di incassare qualche spicciolo.

Per rimediare a questo tardivo spicciolame, cresce
vertiginosamente il numero di piccole imprese che imboccano la via del concordato.

Si parla di concordato quando un'azienda si trovi in una situazione di pre-fallimento. Invece di fallire propone un concordato ai creditori. Un tempo il concordato si faceva intorno al 50 per cento dei crediti. Coi tempi che corrono è sceso vertiginosamente: siamo in media intorno al 20 con punte al ribasso che arrivano fino al 7 per cento. I creditori, anziché perder tutto, accettano e l'impresa può riprendere il suo cammino con un vantaggio notevole rispetto ai concorrenti. Proprio per questa ragione sta aumentando il ritmo dei concordati e non è un bel vedere perché scarica sui creditori il peso dell'insolvenza debitoria. I creditori sono in gran parte banche e questo spiega perché il credito bancario si sta progressivamente restringendo e ancor più si restringerà.

Cito un episodio che tutti i giornali hanno pubblicato ma sul quale forse l'opinione pubblica non ha riflettuto abbastanza. Il governo ha concesso notevoli incentivi all'industria automobilistica, soprattutto per quanto riguarda la rottamazione di vecchi modelli e la fabbricazione di auto non inquinanti. L'industria dell'auto ne ha avuto un discreto sollievo ma Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ha rivelato che finora (ed è passato quasi un anno) non ha ancora ricevuto un soldo ed ha provveduto finanziando a se stesso (cioè alla Fiat) gli incentivi e scrivendo sul bilancio un credito verso l'erario. Cioè: la Fiat ha chiesto alle banche di finanziarle un credito che lo Stato non ha ancora onorato. Vedete un po' a che punto siamo.

* * *
Ci vorrebbe un programma di "exit strategy" ma ci pensano in pochi sia in Italia sia in Europa. Trichet, presidente della Banca centrale europea, ci pensa e ne parla. Draghi ci pensa e ne parla. Monti ci pensa e ne parla. Bernanke, presidente della Fed americana, ci pensa e ne parla. E basta. Cioè: ci pensano e ne parlano le autorità monetarie e alcuni esperti informati in materia. I politici di governo annaspano.
La discussione verte su due modelli: un'uscita dalla crisi a forma di L oppure a forma di W. La prima ipotesi è che si fermi la caduta ma la ripresa sia molto lenta e si dilunghi tre o quattro anni. Il secondo modello è invece che vi sia una ripresa consistente ma di breve durata, cui seguirebbe una forte ricaduta e poi una nuova ripresa. La durata di questo secondo modello è di sei o sette anni.

L'economia italiana, che procede a bassa produttività, sarebbe in entrambi i casi tra le più sfavorite e lente a dispetto di quanto i due amici-nemici Berlusconi e Tremonti vanno predicando da anni e cioè che noi usciremo dalla crisi meglio di tutti gli altri.
Le politiche necessarie per accelerare senza ricadute la ripresa economica sono diverse tra gli Usa e l'Europa. Senza entrare in troppi dettagli, per l'Europa si consiglia una robusta detrazione fiscale in favore dei consumatori-lavoratori per rilanciare la domanda interna e, insieme, una serie di provvedimenti da trasformare in legge con esecutività postergata per ribassare in misura consistente il debito pubblico. In alternativa un'imposta pro tempore sui patrimoni al di sopra di un limite, con applicazione per due-tre anni al massimo. Oppure un contenimento della spesa corrente che negli ultimi due anni non c'è stato affatto facendola lievitare di ben 35 miliardi.

Questo sì, è un dibattito serio. Il resto sono chiacchiere e annunci sgangherati, sempre più percepiti come bubbole per guadagnar tempo prima di far le valigie e andarsene.

* * *
Non posso chiudere questo mio "domenicale" senza ricordare che mentre leggete questo giornale si stanno svolgendo le primarie del Partito democratico per l'elezione del segretario nazionale e dell'Assemblea.
L'appuntamento è importante e interessa non solo il Pd ma tutta l'opposizione. Seguirò anzi il suggerimento datoci ieri da Andrea Manzella, di scrivere Opposizione, con la maiuscola perché la prova di forza dell'affluenza può anzi dovrebbe interessare l'Opposizione nella sua totalità e non soltanto gli iscritti a quel partito.

Le primarie del Pd offrono infatti all'Opposizione una piattaforma organizzativa. Sento parlare di sondaggi di un milione e mezzo o due milioni di votanti. Secondo me non sono sufficienti. Ce ne vogliono almeno tre milioni e questa sì, sarebbe una prova di forza ben riuscita.
Oggi l'Opposizione si può materializzare con tutta la forza che possiede purché superi indifferenza e scetticismo. Mi auguro che ciò avvenga per la salute della democrazia italiana.



http://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/politica/fine-regno/fine-regno/fine-regno.html
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Bruno Vespa un uomo un conto

- Fronte del video di Maria Novella Oppo -

Dio mio, mentre Berlusconi latita, non riuscendo proprio a staccarsi da Putin, anche Bruno Vespa soffre. Non per amore, però. Molto peggio: gli hanno bloccato il rinnovo del contratto perché, figurarsi, il Cda Rai trova esoso il nuovo emolumento (che bella parola; erano anni che sognavamo di usarla anche per i metalmeccanici). Ma scherziamo? Che cosa sono 1.601.016,40 euro per il sommo conduttore? Soltanto 11.878,50 euro a puntata di Porta a porta. Sicuramente meno di quanto costi una seduta della altre due Camere. Oltretutto, si tratta di cifre lorde, sulle quali il nostro dovrà pagare le tasse come un lavoratore qualunque. In più, Vespa si dice disposto a dare 150.000 euro per dieci borse di studio e sfida gli altri big Rai a fare altrettanto. Peccato che abbia il cattivo di gusto di sfidare anche Enzo Biagi, che non può rispondergli. Per questo, a Vespa daremmo il doppio di quello che chiede, purché lavorasse la metà.


http://www.unita.it/rubriche/Oppo/90238
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Il premier smemorato e il dramma dell’agenda perduta

- Lorsignori di Il Congiurato -

C’è una sola spiegazione alle gaffe diplomatiche e politiche del presidente del Consiglio degli ultimi tre giorni: ha smarrito l’agenda degli appuntamenti. Come spiegare altrimenti la clamorosa dimenticanza di mercoledì scorso? Ed era un pranzo ufficiale nientemeno che col Re di Giordania. Dicono che, pur essendo fisicamente ad Arcore, il premier fosse già, con la testa, in Russia. Anzi, i maligni sospettano che ci fosse anche con il corpo, che insomma avesse anticipato la partenza per il troppo entusiasmo, animo giovane, scordandosi dell’illustre ospite nella Capitale. Che imbarazzo, tutti i rappresentanti delle istituzioni erano in fila al Quirinale per presentarsi al sovrano quando è arrivata la telefonata: «Il presidente Berlusconi si scusa, ma... il torcicollo».Chissà se i tre giorni nella dacia hanno avuto un effetto benefico. Di certo nemmeno l’efficientissima intelligence russa è riuscita a scoprire dov’era andata a finire quella maledetta agenda. E così ieri, il premier si è scordato del Consiglio dei ministri benché all’ordine del giorno ci fosse la riforma dell’università, tanto cara a Maria Stella Gelmini. Ma niente, se n’è dimenticato. Colpa dell’agenda, ma anche della dacia.E di Putin. Che gli ha regalato un eccitante fuoriprogramma mettendolo alla guida di un aereo anfibio dei servizi segreti. È stato dall’alto del cielo di San Pietroburgo che Berlusconi ha visto la neve? Probabile. Perché da terra non l’ha vista nessuno. Solo un po’ di rada pioggerellina.Ma va detto che la finta tempesta è servita a rimandarne una vera, tutta politica, che il ministro Tremonti avrebbe scatenato al rientro del premier in Italia. E che tempesta! le dimissioni in segno di protesta per l’ennesima sconfessione, quella sull’Irap. L’incarico di calmare la turbolenza meteo-ministeriale è stato affidato a Bossi.Quanto durerà? «In Italia la situazione è confusa», dicono i sempre più allarmati report Usa. E aggiungono che la politica energetica del governo Berlusconi è ormai un problema perché renderà l’Europa sempre più dipendente della Russia di Putin. Ma a Washington - dove la stima nei confronti di Gianfranco Fini è molto alta - sono scettici, per ora, sulla possibilità che nel parlamento italiano ci siano i numeri per un governo diverso.


http://www.unita.it/rubriche/lorsignori/90194
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La schiavitù dell'euro e il grande inganno delle banche

- di Pietro G.Serra -

A libro chiuso non si può non pensare che una famosa legge mosaica si sia avverata: «tu farai prestiti a molte nazioni e non prenderai nulla in prestito; dominerai molte nazioni mentre esse non ti domineranno»

Questo saggio, scritto da un avvocato, Marco della Luna, autore di altre pubblicazioni come Le chiavi del potere (Koiné) e da Antonio Miclavez, un medico appassionato di economia, costituisce un’esauriente sintesi, chiara e scorrevole nella forma, del ruolo e dell’evoluzione delle diverse categorie di banche, dalle più antiche alle più recenti. Ma non è solo un’indagine storica: la valutazione dell’attività creditizia dei soggetti bancari e la conseguente concentrazione di un enorme potere nelle loro mani, conduce gli autori ad esprimere giudizi di valore che hanno i toni di un’appassionata denuncia.

Il tutto avviene però sempre al di fuori di ogni teoria complottistica. Vale la pena di riportare le affermazioni contenute a pag. 105: «molti sostengono che siamo vittime di una congiura mondiale - dei banchieri, dei finanzieri, degli Ebrei, etc. - finalizzata a istituire un Nuovo Ordine Mondiale tecnocratico[...]. Riteniamo che tutto ciò sia [...] dovuto a un fraintendimento o all’ignoranza di elementari dati sull’economia e sul comportamento umano[...]definire “complotto” la strategia di un’impresa commerciale o di un cartello di imprese che si sforza di acquisire una posizione monopolistica od oligopolistica su scala locale, nazionale o globale, condizionando anche i poteri politici, è infantile - lo può fare chi non sappia nulla della realtà economica- imprenditoriale, del mercato». Una lunga citazione che ci consente di vedere in Della Luna e Miclavez due studiosi intenzionati ad deludere le speranze di tutti coloro che, nella ricerca dell’esistenza delle cospirazioni dei poteri monetari, continuano ad alimentare l’odio brandendo simbolismi negativi come quello del complotto giudaico - massonico. Ma facciamo un passo indietro. Siamo nel 1694 quando la Bank of England fornisce il denaro a uno stato che ormai non riesce più a dominare con le emissioni in proprio il disordine monetario e il suo conseguente processo inflattivo. La banca, così, già dotata di un’ importanza considerevole, acquisita durante tutto il sedicesimo secolo, assume ora un ruolo di primo piano: individuata come autorità in grado di valutare l’andamento reale dell’economia, le viene concessa la facoltà di emettere il primi biglietti di banca: le bank notes. Si tratta, sottolineano gli autori, di una vera e propria rivoluzione: col tempo, infatti, la Bank of England si consoliderà fino ad ottenere il monopolio dell’accesso al credito da parte dello stato e il suo modello si affermerà non solo in ogni paese europeo ma anche in altre parti del mondo, come Stati Uniti e Giappone.

In Italia l’operazione della nascita di una banca centrale viene guidata, nel 1893, da Giolitti; in quell’anno il Parlamento del Regno ratifica la comparsa di un soggetto nuovo, sorto dalle ceneri della Banca romana, implicata in uno storico scandalo, e dalla fusione tra la Banca Nazionale del Regno, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. Il neonato istituto prende il nome di Banca d’Italia e muove i suoi primi passi come «società anonima», ovvero come una società per azioni a prevalente capitale privato. Giolitti interviene in prima persona al fine di garantirne l’autonomia dal potere politico, con l’unica concessione dell’approvazione da parte del Governo della nomina del direttore generale dell’istituto bancario. Nel 1910 un regio decreto le concede di esercitare il diritto di emissione assieme al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia, ma anche di fare al Ministero del Tesoro anticipazioni al tasso dell’1,5%. Con la legislazione del 1926 -27 il regime fascista attribuisce alla sola Banca d’Italia il monopolio dell’ emissione monetaria, ma è solo con le norme del 1936 che l’istituto di credito muta radicalmente la sua struttura: tutte le disposizioni legislative di quegli anni ne confermano l’autonomia e ne consolidano l’immagine di “Istituto di diritto pubblico”, nonostante, come detto poc’anzi, il suo assetto interno sia quello di una società per azioni.

La Banca d’Italia cresce fino a raggiungere, nel 1992, con una legge promossa dall’allora ministro del Tesoro Guido Carli, la totale indipendenza dal controllo pubblico, con il potere di fissare il tasso di sconto senza doverlo più concordare con lo Stato. Il lungo processo evolutivo dell’organismo bancario, di cui si parlava all’inizio, è ormai compiuto. L’Italia è un caso emblematico, perché ormai in tutte le società capitalistiche gli interessi delle banche di stato si sono saldati con quelli dei governi, a un punto tale da consegnare il potere nelle mani di pochi soggetti economici che hanno fatto del debito pubblico un colossale affare. Il debito pubblico cresce incessantemente. Al momento, come da poco ha dichiarato Silvio Berlusconi in un recente confronto televisivo, ogni italiano deve restituire solo di interessi passivi circa 20 mila euro. È una cifra colossale, quella del debito pubblico, legata a un’attività bancaria che prende il nome di signoraggio. Siamo così arrivati alla parte fondamentale del libro: cos’è il signoraggio? Il signoraggio è la differenza fra il valore legale di una moneta e i suoi costi di produzione.

Gli autori espongono la questione con molta chiarezza: lo stato italiano chiede 100 milioni di euro alla banca centrale e li paga con titoli del debito pubblico, la banca li acquista ma emette la cifra a costo zero o quasi, dato che spende 3 centesimi per stampare una banconota (fabbricare moneta costa pochissimo e ciò è dovuto al fatto che più o meno dal 1929 le banche non hanno l’obbligo del gold exchange, cioè della convertibilità in oro), lo stato deve così restituire la somma avuta più gli interessi (il tus) del 2,5%. Una volta conclusa la transazione, la Banca d’Italia vende i titoli e apposta i 100 milioni di euro al passivo, evitando di pagare le tasse su quello che è un puro incremento di capitale, un profitto. È un guadagno enorme per una banca di stato che crea il denaro dal nulla e i cui capitali sono nelle mani dei grandi istituti commerciali e compagnie di assicurazione d’Italia (e il libro ne riporta un elenco dettagliato).

Si intuisce allora quanto siano smisurati gli interessi che ruotano attorno al recente tentativo di acquisto della Bnl. Sono interessanti, a questo proposito, le affermazioni di Marco Saba, autore della prefazione e studioso di problematiche economiche: «se è vero che la Banca d’Italia prende 147 milioni di euro al giorno di signoraggio - afferma Saba -, BNL come socia ne prende il 2,83%. Con semplici calcoli aritmetici si può capire in quanti giorni il Banco di Bilbao y Vizcaya rientrerà dell’investimento di 7 miliardi di euro dell’OPA. Rientrerà in 1688,61 giorni, ovvero in 4.74 anni». Se questo comportamento non suscita l’indignazione popolare, è chiaro che si sono ormai consolidate nuove forme di egemonia che aspirano, scrivono gli autori, a trattare le persone come «mere parti del ciclo riproduttivo della ricchezza», a tutto danno delle categorie deboli di una società in cui i vecchi e gli invalidi «sarebbero trattati come zavorra», e questo perché, nell’economia globalizzata, non si potranno avere «al contempo, più di due alla volta tra le seguenti condizioni: sviluppo, democrazia, protezione sociale». Se in definitiva fosse lo Stato a stampare la moneta, riappropriandosi della sovranità monetaria, non esisterebbe il debito pubblico e le tasse potrebbero essere impiegate per il miglioramento strutturale della società civile. Un compito quantomai difficile dato che i politici non sono in grado di promuovere un’attività legislativa che possa danneggiare gli interessi dei banchieri i quali, alzando di un punto il tasso di sconto, possono scatenare crisi finanziarie gravissime, fino a mettere in pericolo la stabilità dello stato. Ma il signoraggio non coinvolge solo le grandi banche: anche i piccoli istituti, quelli che si occupano del credito ordinario, possono creare denaro creditizio dal nulla attraverso meccanismi complessi.

Come quello del cosiddetto coefficiente di riserva frazionale. Che cos’è? In parole povere le banche possono oggi prestare molto più di quello che hanno nei forzieri, tenendone in riserva solo una piccola parte. Se ad esempio il coefficiente di riserva viene fissato al 2%, la banca riesce a moltiplicare un deposito per cinquanta volte. In questo modo: se un depositante dà 1000 la banca ne tiene 20 in riserva e presta gli altri 980. Tali 980, una volta che vengono depositati nella stessa o in un’altra banca possono generare altro denaro dal nulla, perché la banca può tenere in riserva 19,60 e prestare 960. L’operazione può essere ripetuta per 50 volte. Naturalmente più sarà basso il coefficiente di riserva (che può variare, secondo gli accordi di “Basilea 2” dall’1,6% al 12%) e più alta sarà la somma che la banca potrà creare dal nulla.

Il popolo non detiene più il potere. Non ha più la sovranità monetaria la cui realizzazione, peraltro, dopo il trattato di Maastricht, si è ancora di più allontanata: ora è la Banca Centrale Europea, una banca privata, perché governata dalle banche centrali a loro volta controllate dalle banche private, che può per legge emettere moneta in Europa e controllare il signoraggio. La Bce agisce al di fuori di ogni controllo politico e con le sue scelte condiziona pesantemente la vita delle nazioni. Esiste una via d’uscita? Il libro riporta la proposta di Marco Saba che assieme ad alcuni studiosi ha elaborato una serie di «pacchetti di proposte ragionevoli» il cui punto di forza è costituito dalle monete complementari e locali che, emesse da enti pubblici territoriali, dovrebbero avere una circolazione, seppur limitata, in ogni ambito della società civile. Tutto ciò non toglierebbe all’oligarchia bancaria il suo privilegio e il suo potere. Gli autori però propongono anche una soluzione più radicale: abbandonare l’euro.

I vincoli imposti da Maastricht, scrivono, comportano una cessione della sovranità monetaria, «governo e parlamento [...] non possono emettere la propria moneta ma devono comprarla dalla BCE; non possono agire sul tasso di sconto, perché questo è fissato dalla BCE; non possono svalutare, perché il cambio è gestito dalla BCE e vincolato alle altre euro - valute; non possono spendere a debito per i necessari investimenti produttivi (ricerca, infrastrutture, istruzione), perché sono vincolati a contenere il deficit di bilancio e a ridurre il debito pubblico».

A libro chiuso non si può non pensare che una famosa legge mosaica si sia avverata: «tu farai prestiti a molte nazioni e non prenderai nulla in prestito; dominerai molte nazioni mentre esse non ti domineranno» (Deuteronomio 15:6).

Fonte: http://www.girodivite.it/spip.php?article4346
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