- di Emilio Carnevali -
"È il tramonto definitivo dell'era socialdemocratica, senza speranze di nuove aurore, oppure si giustifica l'attesa che il pendolo torni a sinistra?". Se lo è chiesto ieri (6/10) sulla Repubblica Mario Pirani, affermando che "la domanda va posta, senza addolcirla con cure palliative. A darle senso sta la dimensione continentale e non nazionale del rovescio".
Qui in Italia (l'unico paese dell'Europa occidentale dove non è presente in Parlamento né un partito socialista né un partito comunista, cioè le due forze nate dall'Internazionale socialista delle origini) le analisi attorno alla crisi della socialdemocrazia europea sono sostanzialmente di due tipi: c'è chi dice che la sinistra ha perso - e continua a perdere - perché di fatto ha rinunciato ad essere "sinistra" [anche Paolo Flores d'Arcais su questo sito, ndr], cioè a rappresentare gli interessi e le aspirazioni del mondo del lavoro e dei ceti popolari; e c'è chi sostiene che la sinistra sia stata in qualche modo vittima della propria virtù.
Quest'ultima è l'idea che lo stesso Pirani ha sostenuto nel suo articolo. Secondo l'editorialista di Repubblica le socialdemocrazie al governo fra la fine degli anni '90 e l'inizio del nuovo secolo hanno risposto alla sfida della globalizzazione "come hanno sempre fatto i capitani di lungo corso, quando le ondate rischiano di far colare a picco la nave: gettando a mare una parte, quella non indispensabile del carico, cercando di salvare il salvabile e di non perdere il vascello. Di qui le riforme di Shroeder, quando era Cancelliere o di Blair e anche di Prodi, se vogliamo accennare all'Italia. Solo che le riforme storiche di un tempo davano sempre qualcosa o anche molto di più di prima, incrementavano il lavoro o il reddito, la protezione e la sicurezza; le riforme di oggi sono sinonimo di tagli e decurtazioni, indispensabili quanto dolorose, e danno sempre qualcosa di meno. Per salvare il futuro si è penalizzato necessariamente il presente".
A questa argomentazione si possono muovere due obiezioni, accompagnate da una premessa. La premessa è che proprio uno dei protagonisti citati da Pirani, Romano Prodi, la pensa diversamente. Come abbiamo già ricordato su questo sito, l'ex presidente del Consiglio italiano ha scritto recentemente che "la causa della sconfitta di questa grande stagione" è da individuare nel fatto che "nella prassi di governo Tony Blair e i governi che ad esso si erano ispirati si limitavano ad imitare le precedenti politiche dei conservatori inseguendone i contenuti e accontentandosi di un nuovo linguaggio". Non si battevano dunque le nuove strade del riformismo (per quanto "aggiornato") ma le vecchie strade dell'inegualitarismo di destra e conservatore. Parola del "capitano di lungo corso" Romano Prodi.
Ma passiamo alle obiezioni.
Primo. Molti dei clamorosi errori della sinistra al governo - errori legati quasi sempre a scelte in controtendenza col il proprio storico "patrimonio ideale" cui era legato anche il proprio storico "patrimonio di consensi" - non c'entrano nulla con i nuovi "vincoli" evocati da Pirani per il riformismo in epoca di globalizzazione. Pensiamo ad esempio all'appoggio di Tony Blair alla criminale impresa irakena di George W. Bush o, per venire ai fatti di casa nostra, all'incapacità del centrosinistra italiano (al governo per 7 anni negli ultimi 13) di risolvere con una legge vera il conflitto di interessi. Ma per quanto concerne il "caso italiano" gli esempi potrebbero essere innumerevoli, dalla scelte suicide sulle leggi elettorali alla violazione del dettato costituzionale che proibisce il finanziamento alle scuole private.
Secondo. Pensa davvero Pirani che di fronte all'acuirsi della competizione internazionale quelle fossero scelte lungimiranti? Che la scelta strategica di competere sui costi e non sulla qualità e l'innovazione (questo era, al di là delle belle parole, il disegno dietro ai 'pacchetti' di arcinote riforme neoliberiste da qualunque parte provenissero) fosse un progetto volto a "salvare il futuro penalizzando il presente"?
Per brevità rimandiamo qui ad un libretto piccolo ma preziosissimo, scritto qualche anno fa da Luciano Gallino ed intitolato La scomparsa dell'Italia industriale (Einaudi). In questo libro Gallino analizza le ragioni profonde di un declino del nostro sistema-paese che affonda le proprie radici molto in profondità. Quella che fino a pochi anni fa era la settima economia del mondo è oggi diventata un nano industriale, mentre paesi ben più piccoli dell'Italia, come Olanda, Svizzera, Svezia e Finlandia, possono vantare (al netto della recente crisi globale) performance economiche e industriali invidiabili. Chiunque può rendersene conto guardando il telefonino Nokia che tiene in tasca: per caso in Finlandia la globalizzazione non è ancora arrivata?
Nel "confronto tra le riforme [liberiste, ndr] riproposte ogni giorno con toni drammatici, quasi che da esse dipendesse il futuro del Paese, e i problemi da affrontare per ridare slancio alle parti migliori dell'industria nazionale", scriveva Gallino nel suo libro, "la sproporzione tra la grandezza dei secondi e la pochezza delle prime" risulta "abissale". "Come se uno proponesse, per dire, di costruire il ponte sullo stretto di Messina con una scatola del meccano".
P. S. A proposito di crisi della socialdemocrazia europea: i socialdemocratici della Linke in Germania hanno raccolto un clamoroso 12 per cento. Gli accigliati riformisti nostrani attribuiscono questo risultato alla "nostalgia del muro di Berlino". Continuiamo così, facciamoci del male...
http://temi.repubblica.it/micromega-online/socialdemocrazia-magari/
FONTE
INFORMARE PER RESISTERE su Facebook
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento