- di Emiliano Sbaraglia -
“La cura” di Michele Ainis (Chiarelettere, pp.183, € 14), costituzionalista e saggista, potrebbe apparire una proposta esclusivamente provocatoria e praticamente impraticabile. E forse è proprio così. Ma il libro ci costringe, lo si voglia o no, a fare i conti con la disastrosa situazione sociale e politica che domina l’Italia. Una situazione dalla quale, scrive Ainis, si potrebbe tentare di uscire seguendo le indicazioni di un “decalogo” (che costituisce la seconda parte del libro), nel quale l’autore individua una serie di accorgimenti che suonano, per l’appunto, spesso estranei alla cultura sedimentata ormai da decenni nel nostro paese. Un esempio su tutti, l’idea di una penalità per coloro i quali cerchino di ripercorrere le orme professionali dei propri genitori. Nella patria delle lobby e dei nepotismi, sembra veramente fantascienza. Se non oltre. Di questo e altro abbiamo parlato con lo stesso autore.
Professor Ainis, il suo libro si struttura sostanzialmente in due parti, potremmo definirle una “destruens”, l’altra “costruens”; nella prima si analizza la situazione politica e sociale, a dir poco critica, dell’Italia. Nella seconda si teorizza una cura, come recita il titolo del libro. Partirei dal suo sguardo sulla realtà di oggi…
Diceva Omero: gli dèi tessono disgrazie affinché gli uomini abbiano odi da cantare... Al di là delle citazioni, partirei da una analisi di fondo, che poi è alla radice di tutti gli altri mali: parlo di un’ingiustizia sociale che deriva dalla incapacità di valorizzare chi lo merita. Il problema del merito, in sostanza, che non è affatto un tema di destra, come spesso si è abituati a pensare. La realtà italiana ci dice che non vai avanti se non sei protetto da una lobby, da un partito, da una famiglia. E in questo modo vanno avanti solo i peggiori o i mediocri. La prima conseguenza di questa pratica è un sistema che non funziona, un sistema inefficiente, come confermano le statistiche contenute nel libro: pensiamo all’indice di produttività. La seconda conseguenza è la diseguaglianza, perché in un sistema inefficiente chi ci rimette sono i più deboli. Guardiamo la giustizia, dove se si hanno bravi avvocati va bene anche una giustizia scassata, e la cui conseguenza naturale risulta essere il demerito, inefficienza, le disuguaglianze sopratutto nei confronti dei più deboli, di chi non ha le forze, e dunque i soldi, per difendersi.
Nel suo libro lei non risparmia nessuna componente politica, complice di corporazioni diffuse e lobby essa stessa. L’attuale scenario politico non concede nemmeno una speranza di riferimento?
Qui non si tratta di partiti o visioni politiche, bensì di una pratica che l’attualità e la quotidianità dei nostri giorni ribadisce in ogni circostanza. Ma sarebbe più importante, più delle varie riforme di cui tanto si parla, una ventata di democrazia diretta a tutti i livelli, che io amo denominare come “un principio di responsabilità”. La democrazia per me è questo. Noi parliamo di massimi sistemi (che in realtà sono minimi), quando piuttosto secondo me bisognerebbe ripartire da questi concetti fondamentali di democrazia.
Tra queste lobby lei inserisce anche sindacati e Chiesa. In che modo possono definirsi tali?
Sarebbe un discorso un po’ troppo lungo... Io credo nelle istituzioni sindacali, sul loro ruolo fondamentale di tutela dei diritti dei lavoratori; ma è sotto gli occhi di tutti la loro degenerazione in una oligarchia. Stesso discorso vale per la Chiesa, con la differenza enorme che intercorre tra il popolo dei fedeli e la Curia che dovrebbe rappresentarli e occuparsi di loro.
Nel suo decalogo tra le varie proposte ce n’è una piuttosto curiosa, vale a dire quella di una penalità per chi concorra a ottenere lo stesso lavoro dei propri genitori. Nel nostro paese pare fantascienza, non trova? La sua è soltanto una provocazione?
Si, possiamo definirla anche come una provocazione. In un mio articolo apparso sul “Sole 24 ore” lo scorso mese citavo ad esempio il caso dei notai, categoria che tra l’altro forse manifesta meno tendenze al nepotismo rispetto ad altre: ho ricevuto una quantità tale di e-mail di protesta da parte di notai, da Venezia a Crotone, che mai avrei immaginato. Io poi sono anche nel mondo dell’università, un’altra di quelle categoria dove ci sono troppi figli, e troppe protezioni indebite. Ma è la quasi totalità del nostro sistema a funzionare in questo modo. Quello che ho voluto comunicare con questo libro è la necessità di interrompere tale circolo vizioso. Per questo mi sono voluto rivolgere soprattutto alle giovani generazioni.
Infatti lei dedica il libro a sua figlia, e più in generale agli under 30. In un passaggio, ai trentenni che si troveranno a condividere almeno una parte del suo decalogo chiede di attivarsi, di proporre leggi d’iniziativa popolare, referendum, petizioni collettive. Non le pare però che proposte del genere possano essere percepite e assorbite soltanto come inutili, troppo teoriche e inefficaci per poter realmente cambiare il corso delle cose?
Non lo so, può anche darsi... Diciamo che per una volta nella vita ho voluto spingere sull’ottimismo del cambiamento. Io sono siciliano, e il pessimismo è un tratto distintivo dei siciliani, perché hanno un rapporto particolare con la morte. Invece ho voluto sperare che si possano trovare delle regole, delle nuove regole, e quella degli under ’30 credo sia l’età giusta per provare a scardinare una porta che sembra blindata. Questo libro è quello che sentivo di poter fare io. D’altra parte, come si dice?, si nasce incendiari e si muore pompieri... chiediamo soccorso agli incendiari.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/un-decalogo-per-guarire-litalia-intervista-a-michele-ainis/
FONTE
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