giovedì 27 agosto 2009

Il tardivo revisionismo prodiano

di Emilio Carnevali

Il giorno di Ferragosto – non proprio il momento più propizio per lanciare un dibattito di questa importanza, ma visto il livello della discussione congressuale del Pd, come diceva lo spot di una nota marca di caffè, “ogni momento è quello giusto” – Romano Prodi ha pubblicato un articolo sul Messaggero contente un giudizio severissimo sul riformismo europeo dell’ultimo quindicennio.
“La causa della sconfitta di questa grande stagione”, ha scritto il Professore ricordando le speranze suscitate dal cosiddetto “Ulivo mondiale”, è da individuare nel fatto che “nella prassi di governo Tony Blair e i governi che ad esso si erano ispirati si limitavano ad imitare le precedenti politiche dei conservatori inseguendone i contenuti e accontentandosi di un nuovo linguaggio. Sul dominio assoluto dei mercati, sul peggioramento nella distribuzione dei redditi, sulle politiche europee, sul grande problema della pace e della guerra, sui diritti dei cittadini e sulle politiche fiscali le decisioni non si discostavano spesso da quelle precedenti. Il messaggio lanciato all’elettore era il più delle volte dedicato a dimostrare che il modo di governare sarebbe stato migliore”. Il riformismo ha in sostanza “perso la fiducia in se stesso” e ha preferito “inseguire le piattaforme e i programmi degli altri”.
Sono parole che non possono non suscitare un certo stupore se si considera che a pronunciarle è stato uno degli assoluti protagonisti di quegli anni, che ha guidato per ben due volte governi di centrosinistra (1996-1998 e 2006-2008), che ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del principale contenitore riformista italiano (il Partito democratico) e che mai prima di ora si era segnalato per una particolare vena critica nei confronti della torsione tecnocratica e subalterna all’ideologia neoliberista effettuata dalla sinistra riformista (non è un caso che l’uomo di fiducia di Prodi nell’ultima esperienza di governo fosse quel “contafagioli” di Padoa Schippa, come Sergio Bologna ha acutamente definito l’ex superministro dell’economia). La stessa Bibbia del New Labour di Tony Blair, La Terza Via di Anthony Giddens (quella che a quindici anni di distanza si sono accorti corrispondere alla buona e vecchia Prima Via), è uscita in Italia (edizione il Saggiatore) con una assai benevola prefazione proprio di Romano Prodi.
Ha giustamente osservato Stefano Menichini su Europa – riprendendo frasi simili pronunciate anche da un altro indiscusso protagonista di quegli anni, Massimo D’Alema – che “la resa dell’onore e della ragione alle critiche di Bertinotti e alla teoria di Marco Revelli sulle ‘due destre’ è totale”. “È vero, dicono in sostanza Prodi e D’Alema, noi eravamo null’altro che una seconda destra, giustamente condannata a venire sconfitta dalla prima e originale, mentre il panorama sociale e politico dell’Occidente continuava a essere modellato dai venti del liberismo”. Menichini, peraltro, non condivide affatto questa analisi e insieme alla ben nota pattuglia di “liberisti democratici” – Polito, Ichino, Nicola Rossi, ecc. – sostiene che l’errore della sinistra italiana è stato esattamente l’opposto, ovvero quello di non aver spinto fino in fondo verso un vero rinnovamento in senso liberale della propria cultura politica e così degli assetti fondamentali del Paese nel corso delle esperienze di governo.
Chiunque abbia ragione – o anche ci trovassimo di fronte a due “torti”, vista la possibilità di conciliare veramente le ragioni di una modernizzazione “liberal-socialista” senza per questo dimettere il tradizionale faro di ogni politica che vuole dirsi di sinistra, ovvero la “bobbiana” centralità dell’eguaglianza – questi sono i grandi temi attorno ai quali dovrebbero confrontarsi – e, perché no?, scontrarsi – i candidati alla segreteria del Pd. Non le beghe di fazione e le nomine di Rai Tre. È troppo sperare che comincino a farlo?

fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-tardivo-revisionismo-prodiano/
FONTE

Nessun commento:

Posta un commento