venerdì 21 agosto 2009

Giornalisti in galera

di Mario Badino
Sito Web dell'autore: Mario Badino


Fa male essere d’accordo, sia pure per una volta, con il signor Umberto Bossi.

Secondo il capo della Lega, infatti, andrebbero messi in galera quei giornalisti che, invece di parlare delle gabbie salariali, si dilungano sull’ennesimo simbolo istituzionale che Bossi vorrebbe cancellare, l’Inno d’Italia, cui andrebbe sostituito il Va’ pensiero verdiano (ma chissà che in futuro non vengano altri suggerimenti musicali dal signor Matteo Salvini, amante, come si sa, dell’arte del canto - nel video un suo recente concerto).

«Dovrebbero metterli in galera, i giornalisti. Hanno inventato la storia dell’inno nazionale. L’avete capito, perché? Perché stiamo parlando di salari differenziati e territorializzati», ha detto il suddetto con l’eloquenza consueta, e a me sembra ineccepibile.

Tra la sparata sull’Inno e la possibile introduzione delle gabbie, infatti, la cosa più grave è la seconda ed è su di essa che dobbiamo concentrarci, non sull’Inno, per scongiurare, magari, l’ennesimo attentato all’eguaglianza dei cittadini italiani e l’ennesima crepa all’Unità del Paese.

Non che io sia nazionalista ma, come ho già detto più d’una volta, dividere l’esistente per inseguire un’altra "patria", costruzione fantastica dell’egoismo di una minoranza di persone, non è una prospettiva allettante. Significa rompere vincoli di solidarietà, tradire doveri istituzionali, condannare alcune aree al sottosviluppo economico, altre a un’involuzione culturale certa.

Salari diversi sono l’ennesimo affondo in favore di questa deriva.

Per carità, guadagnare di più dove la vita costa di più può anche avere un senso. Ciò che non va è l’idea di guadagnare di meno dove la vita costa meno (ammesso e non concesso che costi meno davvero); e non è una battuta, perché non si tiene conto di tutti gli altri indicatori. Come se un costo della vita mediamente inferiore a quello di piazza Duomo a Milano non costituisse una specie di salvagente per le molte aree del Paese connotate dalla disoccupazione, dalla precarietà, dal lavoro nero (attraverso il quale i salari sono già molto più bassi!), e da alcune forme di vessazione criminale (una su tutte il pizzo).

Sarebbe logico, piuttosto, a partire da un salario minimo uguale per tutti (ma ben più alto della media attuale, che ci porta a essere ultimi per salario in Europa) aggiungere qualcosa dove la vita costa di più (facendo però attenzione agli altri indicatori). Di sicuro non ha alcun senso togliere.

E poi, dulcis in fundo: chi dovrebbe decidere gli adeguamenti territoriali dei salari? Un movimento antimeridionalista come la Lega? Il papi del consiglio? Quel tizio a cui hanno dato le chiavi del forziere e che chiamerò Duecolline perché, in tutta onestà, tre monti mi sembrano eccessivi?

Quei giornalisti che non dicono queste cose meritano la prigione certo no, ma almeno il discredito.

Senza contare, come si dice altrove, che la fine dei contratti unici nazionali sta già portando a forme di contrattazione separata, regione per regione e magari azienda per azienda, per cui, almeno per quanto riguarda il privato, l’eguaglianza economica tra lavoratori del medesimo settore è già un ricordo del passato.

Se per un attimo dalle gabbie vogliamo spostarci all’Inno, va puntualizzato che il motivo principale per cui Va’ pensiero non potrà mai essere l’Inno nazionale è proprio il fatto che da anni la Lega se ne è appropriata, facendone l’inno di un’altra - ancorché fittizia - nazione, ponendolo simbolicamente contro l’Unità dello Stato. Se si deciderà di cambiare l’Inno di Mameli (che personalmente trovo orripilante, ma non mi sembra una questione seria), bisognerà scartare per primo, tra i possibili sostituti, proprio quel Va’ pensiero che Verdi non avrebbe mai immaginato di scrivere per Bossi.

Altrettanto legittima rispetto al suggerimento di Bossi è infatti la controproposta che viene da Napoli: O sole mio inno d’Italia!

fonte: http://www.agoravox.it/Giornalisti-in-galera.html
FONTE

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