lunedì 14 settembre 2009

Il sol dell'Avvenire

Le vicende degli ultimi giorni hanno diviso i lettori dei quotidiani, come accade quando si verificano fatti del genere, in due opposte fazioni "l'un contro l'altro armate": quelli che ritengono falsi e diffamatori gli articoli pubblicati dal Giornale di Feltri (edito dalla famiglia Berlusconi) e quelli che sostengono che "un fatto è un fatto", e andava pubblicato.
Proviamo quindi a mettere a posto qualche tassello, in modo da avere un quadro più chiaro della situazione. In primis c'è da dire che qualunque personaggio pubblico (e il direttore del giornale della Cei di certo lo è) difficilmente può appellarsi al diritto alla riservatezza. Questo principio è tanto più vero in un paese dove si tende a utilizzare sempre due pesi e due misure: se la notizia del premier che va con le escort può essere messa in prima pagina, anche la notizia del decreto di condanna del direttore del quotidiano della Cei deve andare in prima pagina. Si tratta di due personaggi pubblici. Non ci si può appellare al fatto che si tratta di "faccende private". Scandali con minorenni, prostitute caritatevolmente definite escort, molestie, non sono un fatto privato, quando riguardano personaggi tanto in vista e, in conseguenza dei propri atti, facilmente ricattabili. Senza contare che, alla luce di quanto riportato dal Giornale, certe tirate moralistiche assumono un sapore decisamente ipocrita, e a nulla serve metterci una pezza con le parole del Vangelo e di Cristo stesso:"Fate dunque ed osservate tutte le cose che vi diranno, ma non fate secondo le opere loro; perché dicono e non fanno.".

C'è da dire anche che, come sempre accade in Italia, le opinioni su una notizia sono riportate ed enfatizzate con molto più clamore della notizia stessa. E il più delle volte si rivelano strumentali, o, al meglio, una ennesima occasione per mettersi in vetrina. Tanto per fare un esempio, la notizia della morte di Mike Bongiorno è passata su tutti i telegiornali, corredata dalle dichiarazioni dei politici di destra, dei politici di sinistra, di Berlusconi. Mike Bongiorno era la televisione, lo era da almeno cinquant'anni. Che c'entravano le opinioni dei politici? Non sarebbe stato più giusto se fossero stati intervistati i suoi colleghi dello spettacolo, le persone che hanno lavorato con lui fianco a fianco per decenni?
La verità è che ogni occasione diventa, per questi politici a cui piace sempre troppo il ruolo di starlette presenzialiste, un'occasione per "farsi vedere". Salvo poi gridare all'attacco mediatico ogni volta che vengono riportate notizie (anche se vere) reputate lesive per la loro reputazione. Dimenticandosi che la reputazione non deve essere tutelata certo dai giornalisti ma da uno stile di vita irreprensibile, o almeno morigerato.

Tornando alla vicenda di Boffo, già quattro anni fa il giornalista Mario Adinolfi, ex collaboratore di Boffo, ne parlava nel suo blog, senza fare nomi: "Pare che il direttore di un quotidiano cattolico abbia ricevuto un decreto penale di condanna. Ma non oggi, l'anno scorso. Tutti i giornali ne sono a conoscenza, a Roma se ne chiacchiera con gusto giusto da un anno, ma per quello strano patto che fa sì che i direttori di giornali si proteggano tra loro, sui giornali non troverete una riga sull'argomento.
Il decreto penale di condanna è il 241 dell'annus domini 2004, reso esecutivo il primo di ottobre dello stesso anno. Il tribunale che l'ha emesso è il tribunale di Terni e il giudice che l'ha firmato ha uno strano cognome, da ironie del destino: Fornaci.
E' lo stesso Fornaci a firmare il 23 agosto 2005 una strana risposta all'istanza di chi chiede formalmente di conoscere gli atti del procedimento. Fornaci scrive che sì, è vero che esiste un articolo del codice di procedura penale (il 116, per la precisione) che afferma che possa accedere agli atti di un procedimento penale "chiunque vi abbia interesse"; ma in questo specifico caso prevale "una prioritaria tutela del diritto alla riservatezza delle parti (imputato e parte offesa) le cui pregresse vicende interpersonali rischierebbero di determinare - se divulgate - un irreparabile danno alla persona"."

La vicenda di Boffo, con corredo di chiacchiere e pettegolezzi, la conoscevo io pure, e io pure l'avrei pubblicata, se avessi potuto, come si dice, "verificare la fonte". Così anch'io ho provato ad accedere al decreto, più o meno con i medesimi risultati avuti da Adinolfi, cioè nessuno. Poi, d'improvviso, viene fuori. Pubblicato con un clamore tale da addivenire alle dimissioni di Dino Boffo, che lascia la guida di Avvenire e di Sat2000. E, immediatamente, tutti i politici si sbracciano per dimostrare all'ex-direttore la propria solidarietà: Maroni telefona, la Finocchiaro parla di killeraggio, Di Pietro presenta un esposto alla procura di Monza con l'ipotesi di un reato di accesso abusivo a sistema informatico e falsificazione di atto pubblico. Berlusconi prende le distanze da Feltri e dal Giornale. E Feltri proclama ai quattro venti la propria indipendenza, e l'indipendenza del Giornale, rispetto a Berlusconi. Ben strano, per chi ricorda la vicenda Berlusconi-Montanelli.
In ogni caso, lo scandalo travolge anche alcuni vertici della Chiesa, che secondo il Giornale erano a conoscenza dei fatti: Ruini, Betori, Tettamanzi.

Un'altra perplessità riguarda i tempi. Stranamente, pur circolando da anni, sembra che la notizia non fosse mai approdata sulle scrivanie di redattori, capiredattori e direttori del Giornale. Poco credibile.
Altrettanto stranamente, viene pubblicata non durante la "luna di miele" tra il Vaticano e Berlusconi ma durante un periodo di "crisi". Un paio di leggi dell'ordinamento italiano al Vaticano non sono mai andate giù, e negli ultimi anni, dopo la vittoria nella lotta contro il riconoscimento delle coppie di fatto e delle unioni omosessuali, la Chiesa ha ricominciato a tuonare contro il divorzio e l'aborto, tentando di mettere fuori legge ciò che il Vaticano moralmente condanna. Già nel 1974 si era tentato un referendum per l'abrogazione della legge 898 che, quattro anni prima, aveva istituito il divorzio. Gli italiani si presentarono alle urne e votarono per la non abolizione. E per almeno un paio di saggi motivi: intanto permetteva a due esseri umani che non ne potevano più uno dell'altro di andare ciascuno per la propria strada, in secondo luogo un divorzio veniva a costare molto meno che non una richiesta di annullamento alla Sacra Rota e la Chiesa perdeva il privilegio di essere l'unica a poter sciogliere quello che era stato unito.
Stesso iter ha avuto il referendum sull'abrogazione della famosa 194, la legge sull'interruzione volontaria di gravidanza: nel 1981, tre anni dopo l'emanazione della legge, al referendum che ne proponeva l'abrogazione l'88,40% degli italiani rispose NO.

Dunque, quel che non si riuscì ad ottenere puntando sui referendum si poteva ottenerlo mediante le giuste "alleanze" politiche. Certo non con un governo di sinistra, ma con un governo più "conservatore" magari si poteva provare. E poco importava se bisognava far finta di non vedere su tante cose. Il fine da raggiungere viene sempre prima di tutto.
Solo che il raggiungimento del fine diventava ogni giorno più lontano, al parlare di divorzio e aborto i politici nicchiavano, si rischiava di accontentare il Vaticano e di scontentare gli italiani, che ai referendum erano stati chiari.
Tuttavia, scontantare chi ha dato un importante appoggio politico può avere delle conseguenze: per esempio, che l'amico e sostenitore si trasformi in nemico e detrattore. Così il premier, che non aveva mai fatto mistero della propria indole, si è ritrovato a dover fronteggiare critiche al proprio comportamento anche da chi fino a quel momento aveva attuato la politica delle tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. E il contrattacco non s'è fatto attendere: chi vuol insegnare la morale agli altri non deve avere scheletri nell'armadio. E via a tirarli fuori, gli scheletri.

Il primo a farne le spese, ovviamente, l'ormai ex-direttore dell'Avvenire e di Sat2000. Non intendo certo prenderne le difese, visto che lo hanno già fatto in tanti. Difese a spada tratta, dalla Cei e dai politici, ma null'altro che chiacchiere. Perchè alla fine, oltre le parole, chi ci ha rimesso è stato proprio Boffo, costretto dalla bufera a dare le dimissioni.
Certo, avrei preferito che, oltre a parlare di "patacche mediatiche", Boffo avesse mostrato quel decreto penale di condanna a supporto delle proprie motivazioni di fronte all'opinione pubblica. Invece, la spiegazione offerta è stata che il cellulare dal quale partivano le telefonate moleste era probabilmente stato utilizzato da qualcun altro. Gli inquirenti però, all'epoca non avevano seguito quella pista perchè ritenuta non attendibile. Tuttavia, il Corriere della Sera ripropone la storia: le telefonate sarebbero state effettuate da un collaboratore di Boffo, un ragazzo appena ventiquattrenne ospite della Comunità incontro, il centro di recupero per ex tossicodipen­denti fondato da don Pierino Gelmini. E sarebbe stato proprio quel ragazzo, in seguito morto per overdose, il vero autore delle telefonate. L'ex fidanzato della ragazza di Terni vittima dello stalking, sarebbe stato a sua volta un ex tossicodipendete passato dalla comunità di Gelmini.
A seguito della denuncia e delle indagini, Boffo avrebbe deciso di proteggere il ragazzo preferendo chiudere la vicenda nel più breve tempo possibile. Quindi accetta il decreto penale di condanna, non fa opposizione al provvedimento, nulla. Accetta di avere una macchia sulla propria fedina penale pur di salvare un ragazzo sfortunato che ha approfittato della fiducia e del lavoro offertogli per molestare, col telefono solitamente usato da Boffo stesso, una ragazza colpevole di essersi fidanzata con l'uomo "sbagliato". Beh, magari sarà anche vero che non c'è limite alla carità cristiana ma possibile che arrivi a tanto? Possibile che ci si assuma il rischio di uno scandalo che può troncare la carriera pur di proteggere qualcuno che, guarda caso, nel frattempo non può più nè confermare nè confutare nulla di quanto gli viene imputato?

In ogni caso, resta l'amarezza.
L'amarezza di vedere il giornalismo, l'informazione, affossarsi ogni giorno di più, piegandosi agli interessi politici ora di un padrone ora di un altro.
L'amarezza di vedere questi politici che usano sempre due pesi e due misure: mettere in prima pagina i "pruriti" di qualcuno è legittimo, mentre non è legittimo parlare della condanna penale di qualcun altro.
L'amarezza di non vedere mai la trasparenza necessaria, indispensabile, a fare bene questo mestiere.
L'amarezza di non riuscire mai a conoscere i fatti, la verità dei fatti, ma solo opinioni di parte, minacce di querela, strilli di indignazione ipocrita.
L'amarezza di chi, purtoppo, sa già come andrà a finire anche questa storia, cioè all'italiana: omertà e provvidenziali dimissioni, e poi una coltre di silenzio.


fonte: http://viaggionelsilenzio.ilcannocchiale.it/?r=125837
FONTE

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