lunedì 9 novembre 2009

Pedro Almodóvar: quest'Italia scandalo

Il regista spagnolo a Roma per presentare il suo ultimo film: un omaggio al nostro neorealismo e alla forza delle donne
intervista di Malcom Pagani

Barba lunga, una teiera sul tavolo. “Vorrei camminare per Roma come un qualunque turista, crede che il cielo si stancherà di mostrare la sua faccia peggiore?”. A ogni frase, un’invenzione. Pedro Almodóvar convive con sessant’anni spesi in assoluta libertà. Giacca da boscaiolo, mani che cercano nell’aria, fiori che ingentiliscono un luogo di passaggio. In una stanza dell’Hotel De Russie, mentre fuori dalle finestre scorre un’umanità che non gli appartiene, il regista spagnolo ragiona su un presente che al cromatismo preferisce il bianco e nero. E’ appena tornato da New York. “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”, a Broadway, un successo. Teatro e vita, viaggio e creazione, occhiaie che riverberano fatica. Si siede, versa una tisana, la offre. Convinto che “due buone battute di dialogo, assolvano la medesima funzione degli effetti speciali in “Terminator”, e possano avere lo stesso impatto”, Pedro parla con partecipazione. Interromperlo è complicato. Per dividere un abbraccio, bisogna conoscere i sentimenti.

“Gli abbracci spezzati” è un frammento di discorso amoroso. Un apologo su cinema e vita e sul dovere di affrontarli fino alle estreme conseguenze.

Il cinema sopravvive a qualunque evento. Al dolore, all’amore, all’odio, al lutto, all’indifferenza. Ho girato questo film con la precisa intenzione di omaggiare il motore della mia esistenza e tutte quelle figure che hanno fatto della mia vita un viaggio che disprezzava la noia come compagna d’avventura e cercava i colori, ovunque si nascondessero.

Le storie d’amore de “Gli abbracci spezzati” si inseguono lasciando addosso ai protagonisti il senso e le ferite di un’esperienza irripetibile. L’esercizio del dominio e la tentazione di esserne soggiogati, giocano un ruolo chiave.

Le emozioni sono mediate da un uomo che si illude di dominare il contesto grazie alla forza del denaro. Il potere non ha fantasia, conosce solo un linguaggio. Lo stesso di sempre.

Alla lunga si dimostrerà inefficace.

Il produttore vorrebbe controllare la realtà, finanzia l’opera con la sola ragione di tenere legata a sé Lena, la protagonista. La considera sua. Un’ossessione. Quando capisce che i soldi non basteranno, si accanisce sull’unica cosa che gli è rimasta. Vorrebbe far male, ma non sa dove siano fuggiti il regista e la donna senza cui la quotidianità gli appare inutile. Allora corrompe il montatore e lo costringe a deformare il film rendendolo mostruoso.

La passione si dimostrerà più tenace.

L’arte è più forte di qualunque ricchezza. Nel finale ristabilisco una giustizia poetica e lascio terminare l’opera alla stessa persona che l’aveva iniziata. Mateo Blanco è diventato cieco ma questo non gli impedisce di guardare al di là del buio.

Una metafora attualissima...

Ho sessant’anni, faccio questo mestiere da decenni. Non riesco a vedermi in nessun’altra veste. Se mi dovessi ammalare gravemente o fossi in punto di morte, mi piacerebbe somigliare a John Houston. C’è una foto che non riesco a dimenticare. John è su una sedia a rotelle, circondato da tubi di plastica e bombole per l’ossigeno. Felice. Gli occhi vivi, mentre mette in scena un’opera di Joyce. Ecco, quell’immagine estrema, vorrei mi appartenesse.

In questo omaggio cinéfilo che ingloba il noir come i grandi classici, l’Italia è una presenza costante.

La mia formazione personale deve moltissimo all’Italia. Conosco i vostri anni Sessanta come se li avessi vissuti da voi e la mia cultura cinematografica e musicale, rimanda continuamente a un’epoca splendente in cui alla radio ascoltavo Mina, Milva e Vanoni e in certi cineclub fumosi, osservavo ogni film dei maestri che segnarono indelebilmente un periodo irripetibile della mia libertà .

Dvd di Visconti, libri di Tonino Guerra, citazioni di Rossellini, ne “Gli abbracci spezzati”, non si risparmia.

Quando ho letto le poesie di Tonino sono rimasto senza parole. Ad ogni passo, un racconto, a ogni descrizione, una possibile sceneggiatura. Ma è “Viaggio in Italia” di Rossellini a dare titolo e senso a tutto il film. Quando Penelope vede la sequenza di Pompei e il ritrovamento dei due amanti abbracciati e colti di sorpresa dall’eruzione, si emoziona profondamente. Come Ingmar Bergman nell’opera di Rossellini, ma per ragioni diverse.

Quali?

Penelope invece pensa che il Paradiso si nasconda lì, tra le braccia dell’amato. Si abbandona e non desidera altro che prolungare la sensazione per sempre. Cingersi fino al momento definitivo è la più violenta, espressiva ed efficace fantasia di una coppia. È un momento di grazia, che almeno per un secondo, accomuna tutti gli amanti del mondo. L’uomo che è con lei avverte l’unicità dell’istante, prova a fissare l’attimo con una fotografia e imposta l’autoscatto.

Tenta di rendere l’amore immortale.

Ma è una chimera e un arbitrio. Quasi un’eresia. La foto è un oggetto fragile. Si rompe, si deteriora, perde lucentezza. Ci sono respiri che non si possono rendere eterni.

Rossellini l’aveva intuito.

Amo molto il neorealismo di Roberto. Germania anno zero e Roma città aperta sono tra i miei capolavori di riferimento. Roberto era un genio. Con “Viaggio in Italia”, si impose come il profeta di un movimento ancora in formazione. È lui a iniziare dal nulla la rivoluzione e il percorso esistenziale, indagando sui temi che preoccupavano i registi della Nouvelle Vague. Ritrarre la realtà e la vita per quello che erano, senza interpolazioni.Un matrimonio che si sfalda è una storia che si può raccontare in cinque righe. Lui va oltre. Fugge dall’artificialità di uno studio di posa, recupera lo scenario naturale, segna una strada.

Nell’opera, come in tutta la sua filmografìa, le donne rivestono un fondamentale ruolo di schermo e cerniera.

Accadeva anche in Volver. La madre spagnola, con capacità di lotta illimitata nel risolvere situazioni disperate, è un’idea mediterranea che affonda nella mia sfera biografìca. Mamma Francisca era così. Donne eccezionali che hanno fatto sopravvivere la famiglia durante un passaggio di tempo, post bellico, infinito e durissimo. Per questo film volevo però una madre che riflettesse la bellezza del modello femminile che mi aveva fatto sognare in gioventù. Non l’immagine tipica della madre spagnola, tozza, un po’ grassa, non sexy, ma una donna che fosse madre e però femmina. Nell’iconografìa spagnola questa madre non esisteva. C’era però in quella italiana. Sophia Loren tra i vicoli di Napoli, Anna Magnani nelle periferie romane. Presenze sceniche in grado di occupare schermo e subconscio.

I suoi riferimenti all’Italia sono proiettati verso un passato luminoso. E’ la voglia di allontanarsi dalla crisi del presente?

Un dolore piuttosto. Acuito dall’insistenza dei miei ricordi. Non posso eliminarli, mi accompagnano da cinquant’anni. Ricordavo un’Italia diversa. Se manca capacità espressiva su ciò che vi circonda o peggio, memoria di ciò che siete stati,un problema allora esiste.

L’anomalìa italiana.

Nel vostro paese attraversate una fase delicata. Non saprei come definirla. Il suo interrogativo, le dico la verità, mi provoca più domande che risposte.

Ne “Gli abbracci spezzati”, l’assessore del comune traffica in cocaina. “I miei migliori clienti sono i politici”, dice. Tra dossier, vizi privati e scoperte inquietanti, come nei classici russi, la realtà ha superato anche la più orribile delle fantasie

Ma questo accade sempre. La realtà supera sempre la fantasia. Leggo i giornali, ritaglio notizie assurde e spesso gli avvenimenti più esagerati o incredibili delle mie favole, provengono direttamente dalla cronaca”.

In sala, un riso liberatorio. Forse dettato da ciò che sta accadendo oggi nella nostra nazione.

E’ il ruolo del cinema, del teatro, dell’invenzione artistica. Dall’antichità ad oggi. Ed è consolante. La gente si identifica in ciò che osserva e ride, per non piangere, una volta chiusa la porta di casa.

Qualcuno ha paragonato, facendo le debite proporzioni di tempo, azione e intenzioni, l’epoca di Berlusconi a quella di Mussolini. Un lungo periodo che forse, fra trent’anni, sarà analizzato da storici e sociologi. Com’è l’Italia di Mr. B, scrutata dalla Spagna?

(Qui Almodóvar si blocca, chiede conforto alla traduttrice, si fa serio. “Di politica non parlo”, aveva detto prima di cominciare l’intervista. Vuole comunque che gli si ripeta ogni singola parola. Poi si interrompe. La guarda: “Qual es la pregunta?”. La domanda è su Berlusconi e prima di liberarsi, anche il più anticonvenzionale tra i cineasti europei, cerca di ordinare le pulsioni). “Es un argumento sencillo”, sillaba.Un tema semplice ma spinoso. Si osserva con stupore, è un argomento molto delicato. Non voglio dare assolutamente l’impressione di essere qui per giudicare la società italiana. E tantomeno, sfortunamente,ho tra le mani la soluzione del problema. Però la storia giudicherà questo periodo. È chiaro, evidente, solare. Mi piacerebbe (e lo spero per la salute del popolo italiano) che per analizzare il berlusconismo non si attendano gli esegeti del futuro.

Chi allora?

Mi auguro sia la storia, quella con la S maiuscola, quella di adesso, a giudicare e a giungere a conclusioni certe e interventi immediati. Dovete risolvere il problema senza aspettare le considerazioni postume di un intellettuale. Attendere trent’anni e leggere un libro sugli effetti dello stato delle cose nell’Italia del 2009, potrebbe rappresentare un ritardo fatale. Si passa a un altro argomento ma Almodóvar è inquieto. Ascolta ma guarda altrove. Poi interrompe la domanda e puntualizza. “Quando pronuncio stupore, intendo dire scandalo”). Ora, il pensiero sull’era berlusconiana, è completo.

Fatto pace con i critici de El Paìs? (Qualche settimana fa, una polemica feroce tra il principale giornale spagnolo e Almodóvar, ha diviso la Spagna ndr). Ancora convinto di dover ricorrere alla boutade “per sfuggire alla noia di un’intervista”?

Joseph Conrad sosteneva che è assurdo pretendere che un uomo si formi sugli altri un concetto migliore di quello che ha di se stesso. La funzione dei critici, in omaggio a un mestiere deprimente, è quella di parlare male del lavoro degli altri. Con El Paìs i rapporti sono freddi ma non c’è stata allegria né difesa corporativa nell’affrontare quella polemica. Però sentivo di dover difendere un princìpio. Informare è un lavoro duro, richiede obbiettività. Quel giornalista non esercitava la possibilità di valutare. Insultava proiettando le proprie fobìe. Bertolucci, Kiarostami, chiunque. È molto diverso. Ora è diventato più sobrio.

Per fortuna c’è il pubblico.

I critici sono molto meno flessibili degli spettatori. Poi c’è un’altra categoria universale: i coglioni. Quelli che mi dicevano: “Io devo ridere, perché devo ridere? o piangere perché devo piangere? Rispondevo a tutti nella stessa maniera: “Fai come vuoi. Se vuoi ridere, ridi. Se vuoi piangere, piangi”. Io credo nella critica soggettiva di Oscar Wilde, in quella di Guillermo Cabrera Infante, lo scrittore cubano. Altri mondi, mi creda.

Jorge Luis Borges dice che “ i generi non sono altro che comodità storiche o etichette”. In una sola definizione, la sintesi dei suoi 40 anni di cinema.

(Sorride, “non mi dica che sono così tanti”, fa i conti, concorda, suo malgrado)

Ho sempre interpolato i generi. Dalla commedia al melodramma, fino alla tragedia. Almeno la gente riconosce nella mia opera un timbro personale. Vede un fotogramma e afferma: “Ecco, questo è un film almodovariano”. È già qualcosa, porta il mio nome anche se a volte non ne posso più e voglio scappare, anche da me stesso.


da Il Fatto Quotidiano n°41 dell'8 novembre 2009



http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id;_blogdoc=2375267&yy;=2009&mm;=11ⅆ=08&title;=pedro_almod%u00f3var_questitalia_sc
FONTE

Nessun commento:

Posta un commento